La piccola cineteca degli orrori

The Cavern: la brutta copia del claustrofobico The Descent
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Avete presente quello sfigatissimo compagno di classe che, nella buia solitudine del suo ultimo banco, non perdeva occasione di scopiazzare a destra e a manca tentando disastrosamente di mantenere a galla la propria indecorosa carriera scolastica? Beh, dando un’occhiata veloce a The Cavern l’impressione è appunto quella di avere a che fare proprio con uno di questi loosers dei bei tempi andati. Distribuito alquanto in sordina nell’ormai lontano 2005 con la maldestra aspirazione di cavalcare il meritato successo di quel piccolo claustrofobico gioiellino di The Descent, questo indecoroso spreco di tempo, denaro e pellicola non vale l’unghia incarnita dell’alluce destro del capolavoro firmato da Neil Marshall, del quale fa impietosamente razzia senza avere nemmeno la decenza di sputar fuori qualcosa di guardabile. A concepire e dar forma al suddetto disastro troviamo, giovinetto e ricco di buone speranze, nientemeno che – tenetevi forte gente – Olatunde Osunsanmi! Osun… chi?! Ma si dai: quel tizio che nel 2009 fece brevemente parlare di sé con quel furbissimo mockumentary a tema alien abduction dal roboante titolone de Il quarto tipo e che, con la stessa velocità con la quale era precipitato sotto i riflettori, di lì a poco si sarebbe inabissato nuovamente nell’anonimato del tubo catodico, impegnato a prender parte a mille progetti seriali senza infamia né lode come Falling Skies, Sleepy Hallow, Gotham e i mille tele spin-off di Star Trek.  Nel summenzionato anno domini 2005 infatti, mentre già quel marpione di Bruce Hunt tentava un colpo gobbo con il più che dignitoso The Cave, il buon Osunsanmi, imbracciata la fida macchina da presa e con le tasche piene dei dollaroni sborsati dalla malfamata Dead Crow Productions si preparava a dare inizio alla sua bislacca avventura filmica in quel del deserto di Kyzlkum in Kazakistan, forse già ben conscio di avere tra le mani una sceneggiatura sul cui valore e sulla cui dignità sarebbe meglio soprassedere.

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E se è vero che, come vociferava il buon Truffaut, è dai primi metri di pellicola di un esordiente che si può capire tutto il suo valore, basterebbero i soli titoli di testa per farci rendere conto di quanto The Cavern e il proprio autore si collocassero ben al di sotto del comune senso del pudore cinematografico. Una fastidiosa ed epilettica sequela di sparaflashate all’interno di un’oscura grotta che bastano da sole a render conto del mood del intero film. Un film che, dopo un desertico incipit talmente sovraesposto da fare invidia a un olocausto nucleare, ci presenta in fretta e furia il nutrito gruppetto di protagonisti costituito da cinque scafati speleologi (Sybil Temtchine, Mustafa Shakir, Andres Saenz-Hudson, Ogy Durham e Andrew Caple-Shaw) appassionati di fotografia e tesori nascosti, due guide locali (Kamen Gabire e Neno Pervan) e un ricercatore intento a imbastire un libro sulle spedizioni in grotta. Non può ovviamente mancare un bel dramma pregresso che trova il suo fulcro nella morte, avvenuta alcuni anni prima in Perù, della giovane Rachel, ex membro dei folli esploratori la cui vicenda ci viene stancamente narrata a spizzichi e bocconi durante tutto il corso della pellicola attraverso una serie di flashback a tradimento. Inutile dire che i nostri eroi non sono altro che illustri esempi della classica carne marcia da macello vista, rivista e stravista in mille e più horrorrini di alta e bassa lega; tutti pimpanti e sprezzanti del pericolo sino a quando, infrattatisi in una non ben precisata e intricatissima rete di claustrofobiche caverne sotterranee, inizieranno ad essere accoppati uno dopo l’altro da non si sa bene chi o cosa. 

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Non a caso diciamo “non si sa bene”, poiché, infiammato prologo a parte, novanta minuti dell’intera ora e trentacinque di durata sono costituiti dal buio più assoluto, sporadicamente intervallato dal debole fascio delle torce posizionate sul casco dei nostri bidimensionali personaggi, i quali, come se non bastasse, tra un urlo, un’imprecazione e un continuo sudatissimo ansimare, vengono inquadrati di spalle o frontalmente dal traballante obiettivo di Osunsanmi, forse già contagiato dal futuro mockumentary style e del tutto inconsapevole di star girando un film che, almeno nelle sue laide intenzioni, dovrebbe considerarsi “canonico”. Il problema principale di The Cavern è appunto che, nonostante non sia affatto un found footage, ogni singola fibra del suo essere sembra virare verso questa direzione, con il risultato che, ad eccezione dell’epilogo nel quale la macchina da presa sembra quietarsi per qualche dannato minuto, per tutto il resto del tempo siamo costretti a rassegnarci a non vedere – e di conseguenza a non capire – una stramaledettissima mazza di niente. E anche sul suddetto epilogo ci sarebbe da discutere assai, inconcepibilmente esaltato da alcuni che in esso vedono un qualche sbalorditivo significato ma che, credeteci sulla parola, fa orrore e ribrezzo come tutto il resto. Se fino ad ora di questo fetente The Cavern non avevate mai sentito parlare nemmeno per sbaglio e di conseguenza la vostra ipersensibile coscienza da fieri cinefili dell’orrido vi sta punendo di gran carriera, mettetevi l’animo in pace e meditate su questo: di modi per farsi veramente del male nella vita ve ne sono più che a sufficienza, e dare in pasto le vostre cellule ottico-cerebrali a questa zozzeria non è certo la più dignitosa.