Screenview Movies – Parte 2

La morte corre sul desktop
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Fossimo tra i quattro lati di uno schermo televisivo, a questo punto partirebbe la solita suadente voice over a introdurre il solito stringato recap con cui comprimere, in una manciata di secondi, gli eventi più salienti di quanto visto o meno nella precedente puntata. Ma dato che, per coerenza con il tema trattato, ci stiamo barcamenando fra i pixel del monitor di un aggeggino più o meno portatile, allora conviene probabilmente tagliarla ancora più corta e andare subito al sodo, ripartendo dunque da un unico e tutt’altro che semplice nome: quello di Timur Bekmambetov. Continuare a parlare degli screenview movies senza tirare in ballo questo pazzo cineasta (e ancor più sciroccato produttore) parrebbe, infatti, quantomeno curioso. Di lui se n’è parlato parecchio a suo tempo e si è giustamente tornati a parlarne in tempi recenti e non sospetti, in quanto cinematografico suddito del glaciale Zar Putin con il pallino della sperimentazione estrema – vedasi il contributo tutt’altro che minoritario a quel delirio cine-videoludico di Hardcore (Ilya Naishuller, 2015) – nonché grande promoter di gran parte dei più importanti titoli facenti uso dell’estetica screenlife, strategia estetico-narrativa da lui stessa testata in maniera alquanto pionieristica sin da inizio anni Duemila nel suo famoso dittico formato da I guardiani della notte (2004) e I guardiani del giorno (2006). A lui si deve infatti l’aver codificato gli stilemi ufficiali di questo innovativo sotto-sotto genere, oltre all’aver dimostrato quanto tali prodotti richiedano in media un tempo di realizzazione ben al di sotto dei consueti standard, in genere non superando quasi mai le due settimane tra pianificazione, riprese e post-produzione. E fu proprio grazie ai rubli e alla materia grigia del buon Timur che, in quel fatidico 2014, l’altrettanto scapestrato Nacho Vigalondo ebbe modo di dare alla luce un piccolo gioiellino come Open Windows, a oggi meritatamente considerato come il più “cinematografico” e cinetico fra i già radi screenview movies. Un incalzante thriller  incentrato sulla cronaca in diretta streaming della tutt’altro che simpatica oretta e quaranta vissuta da uno stralunato Elijia Wood, qui nei panni del timido amministratore di un sito web dedicato al culto dell’ attrice Jill Goddard. Il ragazzo è  però caduto suo malgrado nelle grinfie di un misterioso e sadico hacker che, usando la copertura e le competenze informatiche dello stesso sfortunato nerd, sembra intenzionato a stolkerare pesantemente l’ignara starlette, pescando senza ritegno nella di lei vitaccia privata. Una trama tutt’altro che stiracchiata e pretenziosa, strutturata con tutti i sacri crismi di un home(page) invasion e forte di una regia esplosiva capace di usare a piena potenza tutti gli informatici video-ammennicoli del caso, così come accadrà qualche anno dopo con quel piccolo capolavoro di Searching (Aneesh Chaganty, 2018), l’opera sino a oggi più matura e riuscita fra i titoli di questo ancora giovanissimo filone. Un vero e proprio “film” con la F maiuscola, capace di mettere in scena come mai nessun altro prima l’ansiogena detection intrapresa in via telematica da un disperato padre di famiglia e da una premurosa detective all’interno della torbida esistenza digitale della di lui figlioletta, improvvisamente scomparsa e in seguito ritrovata cadavere, seguendone ogni minima traccia social.

Open Windows (2014)

Open Windows (2014)

Se tuttavia non mancano certo prodotti screenlife desiderosi di andare al di là della truculenza gratuita e della semplice suspense per poter trattare, con garbo e lucidità, alcune tematiche profonde e scottanti – così come accade alle dolenti esperienze di scoperta dell’identità sessuale, suicidio adolescenziale e abusi domestici discussi via social dai giovanissimi protagonisti del toccante indie Face 2 Face (Matt Toronto, 2016), oppure alla moralmente equivoca love story sbocciata tra una giornalista sotto copertura e un convinto jihadista in una chat per aspiranti foreign fighters che fa da sfondo al cardiopalmatico Profile (2018) firmato proprio da Bekmambetov -, è pur sempre vero che, come si sul dire, anche su di uno schermo più o meno piccolo sangue chiama sangue, meglio se giovane, irrequieto e mentalmente disturbato. Ed è così che sembra aver preso piede un vero e proprio sotto filone del già brulicante sotto-sotto genere screenview, i cui protagonisti non sono altro che scapestrati e potenzialmente pericolosi teenager che, improvvisandosi spesso spregiudicati influencer affamati solo di like e visualizzazioni, per accaparrarsi qualche manciata di followers in più si mostrano disposti a compiere le più meschine e innominabili nefandezze. E’ ciò che accade in quel crudissimo bagno di sangue in live streaming che è Spree (Eugene Kotlyarenko, 2020), nel quale uno sciroccato giovane autista di una società di rideshare via app, volendo dare un definitivo impulso alla propria ossessione di diventare finalmente una social media star, decide di rapire e torturare alcuni dei suoi ignari passeggeri, testimoniando il tutto in tempo reale. E se alla base della misteriosa moria di adolescenti che permea i novanta minuti di #Blue Whale (Anna Zaytseva, 2021) sembra evidentemente esserci la più oscura e letale fra le leggendarie challenge comparse fra i pixel del web 3.0, non è altro che l’imperdonabile equivoco alla base di un tragico incidente domestico quello che sembra movimentare la serata tutt’altro che rilassante del gruppo di amici protagonisti del sibillino meeting via Zoom di Safer At Home (W. Wernick, L. Bozonelis, 2021), costretti a barcamenarsi in una corsa contro il tempo tra una videata e l’altra in una Los Angeles distopica a causa della pandemia da COVID-19.

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Searching (2018)

Nulla ha a che vedere tuttavia con le terrificanti carneficine incontro alle quali alcuni di questi imberbi ragazzetti si troveranno ad avere a che fare quando, tra una video-chiacchierata su Skype e un meeting di Zoom, un male decisamente poco umano e alquanto sovrannaturale verrà evocato e postato in diretta senza l’ausilio di inutili hashtag o vetuste tavolette Ouija, forse proprio a causa della noia senza fine generata da mesi e mesi di pandemico isolamento forzato. Proprio durante i tempacci vissuti all’ombra del temibile Coronavirus, in un’inedita socialità, vissuta per lo più rigorosamente a distanza e incorniciata dalle ridotte superfici rettangolari dei nostri cari dispositivi digitali, l’interessante ennesimo sotto-filone degli screenview movies a tema evocazione spiritica ha potuto diffondersi e letteralmente dilagare come un virus, a cominciare dal curioso Host (Rob Savage, 2020) che, riprendendo il celebre espediente della seduta medianica via chat a suo tempo inaugurato dall’immortale The Collingwood Story, mette in scena la terrificante videocall di un gruppo di sgallettate ragazzotte alle prese con un spirito alquanto turbolento, chiamato a raccolta senza le dovute precauzioni e pronto e saltare di schermata in schermata per farla pagare a chiunque abbia avuto la disgraziata idea. Una storiella non proprio simpatica, insomma, che sembra ripetersi pressoché identica anche nel divertente e metacinematografico Untitled Horror Movie (Nick Simon, 2021), nel quale dei giovani attori televisivi, dopo aver appreso della cancellazione del loro amato show, nonostante le indubbie difficoltà logistiche decidono di imbracciare webcam e smartphone per girare un proprio personalissimo horror casalingo, affidandosi incautamente a un’improbabile seduta spiritica in diretta streaming che, al posto di evocare una sceneggiatura vincente, riporterà alla luce un’entità oscura e vendicativa. A dirla tutta siamo qui in presenza del meno canonico fra i prodotti screenlife, a causa principalmente di un’ inquietante colonna sonora modello Residen Evil per nulla diegetica e, cosa più importante, di una ben dichiarata mano registica il cui montaggio eterodiretto contribuisce a spezzare in più occasioni la consueta illusione di estemporaneo realismo.

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Host (2020)

Niente a che vedere, comunque, con la nottatta violenta e tenebrosa vissuta dalla scalmanata e ribelle cantautrice indie-rock protagonista dell’ultra sanguinolento Dashcam (2021) diretto dall’ormai specialista del genere Rob Savage (sulla base di una YouTube serie da lui stesso ideata) che, per sfuggire, con piglio fieramente complottista e no-vax alle scomodità del lockdown forzato in una disastrata Los Angels, deciderà di violare senza alcun ritegno la quarantena e di recarsi in quel di Londra per scroccare un posto letto ad un vecchio amico di rappate, senza tuttavia aver previsto di dover passare un’indimenticabile oretta e venti di assoluta follia in rigoroso livestream via iPhone dopo aver accettato di dare un passaggio ad una misteriosa donna evidentemente infettata da un morbo sovrannaturale. Un autentico esempio di screenlife on the road capace di portare per la prima volta il focus della narrazione al di fuori delle solite quattro mura di una cameretta; quelle stesse quattro ansiogene pareti che fanno letteralmente da sfondo all’esoterica avventura vintage di Deadware (Isaac Rodriguez, 2021), nella quale una coppia di amici alla ricerca di una loro conoscente misteriosamente scomparsa si ritroveranno, all’intento di una vetusta video chat di fine anni ’90, ad avere a che fare con un tenebroso browser game incentrato sul culto di un oscuro Demone della Fame, evocandone incautamente il di lui spirito. A chiusura di questo nostro viaggio all’interno dei più sordidi e reconditi meandri della storia del particolarissimo e ancora giovane sotto-sotto genere dei computer screen films, per dovere di cronaca e per dar conto di quanto beffardo sia molto spesso il destino, va detto che, tra gli ultimi strascichi della temibile pandemia da Coronavirus e gli altrettanto spiacevoli venti di guerra in terra Ucraina, i nostri cari amici della steppa inebriati di vodka e caviale sembrano aver deciso di investire una considerevole manciata del loro già scarno PIL nella robusta e forsennata creazione di prodotti audiovisivi in sapore di screenlife, dimostrando come il folle e geniale connazionale Bekmambetov avesse già a suo tempo scovato una nuova gallina delle Uova Fabergé d’oro. Con oltre una ventina di contenuti realizzati e distribuiti direct-to-video esclusivamente all’interno dei russofoni confini nel triennio 2019-2021 – tra serie tv (Nagiyev on quarantine, #SittingAtHome, #InMaskShow, Quarantine Stories), cortometraggi (Madness, Feat, Locked) e documentari (Isolation) quasi tutti a tema pre e post pandemico – sembra proprio che gli screenlife movies siano diventanti la nuova arma di distruzione (o distrazione) di massa con la quali gli amici all’ombra del Cremlino intendono invadere l’immaginario di casa propria così come anche d’oltre cortina. Ben consapevoli che, al giorno d’oggi, la morte, le lacrime, il riso e il terrore non corrono più come una volta lungo il filo o tra le poltrone di una sala cinematografica, ma bensì tra pixel di un piccolo schermo portatile.