Screenview Movies – Parte 1

La morte corre sul desktop
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Contrariamente a quanto insegna il celebre detto popolare, c’è chi afferma che siano gli schermi e non gli occhi il vero specchio dell’anima. Va da sé, infatti, che, con oltre 120 e più anni di storia sul groppone, il cinema si sia dimostrato ben più che capace di catturare e riprodurre le più microscopiche molecole della vita quotidiana all’interno dei quattro lati del suo bianco e lucente rettangolo. Ma con i tempi che cambiano e la tecnologia che evolve, oggigiorno sono altre le finestre di realtà all’interno delle quali la nostra vita viene racchiusa, narrata e tematizzata, siano esse il desktop di un computer, la schermata di un tablet o, meglio ancora, le brulicanti icone che affollano qualsiasi smartphone. Un’intera esistenza compressa in uno spazio angusto fra i 5 e 20 pollici, insomma, dove tutto passa e se ne va al ritmo vertiginoso di un click e di uno scroll, scandito dal caricamento di un anonimo preloader e destinato, prima o poi, a perdersi nel telematico nulla che può giungere a tradimento dopo un improvviso shutdown. E non è affatto strano che, per poter raccontare nuove storie ambientante in questo innovativo universo di schermi il cinema stesso abbia scelto di coniare un nuovo sotto-sotto genere – o, come i più pedanti amano puntualizzare, una nuova tendenza estetica – divenuto croce e delizia dei cinefili più incalliti, apprezzato dai meno e insindacabilmente osteggiato dai più in quanto, così pare, anticinema per eccellenza. E dire che, con due nobili e ben rodati genitori come il mockumentary e il found footage – da cui hanno ereditato l’effetto di realismo del primo e l’illusione di estemporaneità del secondo –, gli screenlife movies (o screenview films) sono ad oggi una delle tipologie di racconto audiovisivo in assoluto più interessante e innovativo, capace di imbastire intere narrazioni semplicemente, si fa per dire, replicando il normalissimo ecosistema di icone, finestre, player, puntatori e contenuti multimediali che animano dall’interno un qualunque dispositivo portatile, manipolando l’apparente “fissità” teatrale tipica di queste videate per costruire storie in apparente tempo reale. Un’estetica multitasking, che comprime e stratifica gli eventi entro i limiti di un’unica superficie, dando vita a una sorta di piano sequenza che tenta di emulare la registrazione di quanto avviene sullo schermo, servendosi di un montaggio “nascosto” che non segue più l’orizzontalità del tempo ma bensì la verticalità dello spazio. Roba tosta, insomma, soprattutto se si tiene conto che tutto ha avuto inizio proprio all’interno del brulicante caravanserraglio del cinema di genere, dove per l’appunto l’horror e il thriller sono stanti i primi a far uso di questo nuovo strumento, in seguito fuoriuscito dai loro stessi confini, per dar vita a stuzzicanti racconti che grazie a una modesta manciata di titoli hanno contribuito a scrivere una delle storie più interessanti, avventurose e in gran parte ancora misconosciute della stramaledettissima Settima Arte.

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The Collinsgwood Story (2002)

La storia degli screenlife movies ha inizio, se non in un luogo, quantomeno in un tempo ben preciso, ovvero in quell’ormai lontano 2002 in cui un misconosciuto cineasta di nome Michael Costanza – che misconosciuto lo sarebbe purtroppo rimasto anche in seguito – scrisse, girò, montò e distribuì, nel più pieno e verace spirito indie, un piccolo e apparentemente innocuo horror dal titolo The Collinsgwood Story. Una storia tutt’altro che fresca e fragrante, la quale vede una giovane studentessa universitaria da poco trasferitasi in una piccola cittadella del New Jersey doversela vedere con l’oscuro passato dell’antica e lugubre dimora nella quale ha da poco preso residenza, a quanto si dice appartenuta nientemeno che al leader di una temibile setta esoterica responsabile di omicidi, sparizioni e, manco a dirlo, sanguinari sacrifici umani. Ordinaria amministrazione filmica d’inizio secolo, insomma, non fosse che l’intera vicenda viene per la prima volta messa in scena attraverso una regia a dir poco innovativa per l’epoca, la quale tenta di riprodurre le sessioni di dialogo fra la protagonista, il suo ragazzo e alcuni altri sporadici avventori – tra cui spicca un’inquietissima medium insolitamente skillata con l’informatica – attraverso le sessioni di una videochat nella quale l’attivazione della comunicazione fra le diverse schermate esigeva ancora, pensate un po’, un diretto collegamento telefonico. Ben prima dei vari Zoom, Skype, Discord e Meet, il buon Costanza cerca insomma di raccontarci, in una suggestiva oretta e venti, ciò che accade sullo schermo di un ideale monitor a tubo catodico di un vetusto computer, utilizzando i colori delle diverse videate dello spartanissimo layout per coordinare, attraverso un’estetica picture-in-picture, gli accadimenti dei vari personaggi collocati in spazi tra loro differenti e distanti, il tutto accompagnato da un inquietante tappeto sonoro “invisibile” (che sarebbe divenuto consuetudine per la maggioranza di questi prodotti) e un’orchestrazione per il momento ancora molto naïf che avrebbe tuttavia fatto scuola per la futura progenie dei vari Paranormal Activity e compagnia cantante. Occorre tuttavia attendere quasi un decennio prima che un altro regista decida di cogliere la lezione di Costanza scegliendo di utilizzare l’ancora acerba estetica screenview per dar corpo a un proprio filmico incubo, stavolta già proiettato in un’era dominata da iPhone, fibra ottica e hashtag mania. Siamo infatti nel ben più recente 2011 quando Micahel Goi – futura bestia da serie tv con mani in pasta in brand del calibro di American Horror Story, Pretty Little Liars e The Gifted – inizia ad acquistare una certa fama fra gli addetti con l’ormai meritatamente celebre Megan is Missing, divenuto all’epoca un piccolo chiacchierassimo fenomeno mediatico anche grazie ad una campagna di passaparola, fake news condite ad uopo e mirata (dis)informazione atta a far credere ciò che veniva narrato con straordinario realismo all’interno del film fosse accaduto per certo.

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Mean is Missing (2011)

Ed è proprio grazie a questa filosofia base da mockumentary ereditata dritta dritta da The Blair Witch Project (e ancor prima dal deodatiano Cannibal Holocaust) che il buon Goi intesse una disturbantissima narrazione costruita su due piani: da una parte i fittizi servizi giornalistici e gli altrettanto artefatti videodiari che illustrano la misteriosa scomparsa della quindicenne Megan Stewart; dall’altra, invece, l’estenuante e pericolossissima discesa nei più reconditi abissi del web compiuta in livestream dalla giovane Amy Herman per ricostruire le oscure frequentazioni via chat che hanno portato alla sparizione della cara amichetta di merende. E non è affatto un caso che, nel giro di pochissimo tempo, l’estetica screenlife, con i suoi sibillini pop-up, le sue multiple Finestrelle sul Cortile e le sue curiose cartelle desktop piene zeppe di segreti sia stata sempre più utilizzata per mettere in scena torbide storielle di suspense ed orrore, il cui corpus del delitto viene per l’appunto consumato ai danni di incauti internauti vittime, loro malgrado, dei sadici abitatori degli infernali abissi della Rete. Se ad esempio l’ingenua Liz protagonista del tesissimo The Den (Zachary Donohue, 2013) scandagliando a destra e a manca i più sordidi cantucci del World Wide Web, registrandone e documentandone le più zozze e curiose nefandezze a scopo di studio, si ritroverà alla mercé degli equivoci amministratori occulti di un pericolosissimo sito a tema snuff, sorte non certo migliore toccherà all’altrettanto giovane e ingenua studentessa Emma Taylor nell’ansiogeno Ratter (Branden Kramer, 2015), il cui fresco trasferimento in un nuovo appartamento di Brooklyn si trasformerà ben presto nella cronaca in diretta screencast di un autentico incubo domestico, nel momento in cui un misterioso e malintenzionato hacker inizierà a prendere il controllo della vita privata on e off line della nostra povera eroina, costringendo i suoi affetti più cari ad assistere in tempo reale via social e videocall alla sua immancabile disfatta psicofisica. Non dimentichiamoci tuttavia che il Male, quello verace e sovrannaturale, è sempre pronto in agguato dietro l’angolo inferiore dello schermo, giusto vicino all’icona del cestino,  desideroso di farsi accarezzare pelo e contropelo dalla vibrante freccetta assassina del nostro puntatore.

Unfriended (2014)

Unfriended (2014)

E così, mentre le terrificanti esperienze di alien abduction vissute in primissima persona dalla disorientata protagonista del segmento “The Sick Thing That Happened to Emily When She Was Younger” diretto nel 2012 da Joe Swanberg all’interno dell’arcinota e ormai iconica antologia horror V/H/S verranno discusse direttamente in videochat con il suo stesso fidanzatino, gli sfortunati sbarbatelli che animano quel piccolo instant cult di Unfriended (Levan Gabriadze, 2014), riunitisi per la solita sessione di video cazzeggio in quel di Skype, si ritroveranno non solo protagonisti di uno dei più nudi e puri fra gli screenview movies da manuale, ma dovranno fare i conti con gli spettri – anzi, lo spettro – di un recentissimo e ancor fresco passato, nel momento in cui una misteriosa entità sovrannaturale 3.0 si impossesserà a tradimento dell’account ormai defunto (pardon per il gioco di parole) appartenuto ad una loro amichetta suicidatasi giusto un anno addietro, forse proprio per causa della malalingua e dei mal-post di uno di loro. L’importanza di un film come Unfriended, così come anche in parte del suo seguito Unfriended: Dark Web (Stephen Susco, 2018), dipende non solo, come già accennato, dall’aver dato forma filmica agli stilemi basilari dell’architettura di un classico prodotto screenlife – con quel ritmo di montaggio “interno” e tutti quei fittizi movimenti di macchina scanditi da icone, notifiche e colse-up sulle varie videate in seguito assorbiti anche da prodotti non propriamente imbevuti di orrorifico sangue, come ad esempio l’interessante mystery indiano C U Soon (Mahesh Narayanan, 2020) e la simpatica rivisitazione in chiave rom-com a suon di post ed SMS dell’immortale liason shakespeariana che è R#J (Carey Williams, 2021) , quanto piuttosto dall’aver usufruito del contributo creativo e produttivo, oltre che del Re Mida Jason Blum, in particolare di quella folle eminenza grigia che risponde al russofono nome di Timur Bekmambetov. Chi è costui? Da dove viene? Ma soprattutto: che diamine c’azzecca con il brulicante universo degli screnview movies? Tempo al tempo amici, perché di costui e di altri suoi pazzi amichetti di tecno-merende ce ne sarà a bizzeffe di cui parlare nella prossima puntata. Perciò ricordate di disabilitare lo spegnimento automatico e di tenete in caldo i vostri luccicanti schermetti, perché la partita, lungi dall’essere conclusa, inizia proprio ora a farsi davvero interessante. Parola di hacker!