La piccola cineteca degli orrori: La casa degli zombi

I peggiori non-morti della storia del cinema
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Ogni zombi è bello agli occhi di mamma sua. Alcuni però, detto fra noi, sono particolarmente fetenti. Un po’ come gli improbabili mangia carne a tradimento protagonisti dell’altrettanto improbabile Zombie Child, meglio (s)conosciuto dalle nostre parti con il titolo fuorviante – e ovviamente raiminiano – di La casa degli zombie. Protagonisti per modo di dire ovviamente. Si perché, su di una risicatissima oretta e venti di durata, i nostri redivivi gettano fuori la loro imputridita testa non prima dello scoccare dell’ultimo quarto d’ora, costringendo lo spettatore a sorbirsi oltre settanta minuti di noia che a confronto un simposio sull’origine degli esametri dattilici dell’Odissea di Omero pare un rave party. Ma, fra tutti gli oscuri misteri che avvolgono sin dal lontano 1977 questo anonimo e disastrato filmetto che vorrebbe occhieggiare a zio Romero, quello in assoluto più scioccante risiede nelle esoteriche motivazioni che spinsero i distributori del bel paese, nel corso dei magici anni ’80, a sdoganare nelle nostre sale una versione inconcepibilmente doppiata della suddetta cine-monnezza, tentando in seguito magra fortuna nei sottoboschi del mercato home video con una leggendaria VHS che nel corso del tempo è divenuta feticcio raro e ambitissimo per gli amanti dei brividi a costo sotto zero. Il (de)merito di tutta questa folle bracconata va riconosciuto a quel gran simpaticone di Robert Voskanian, giovane studente di cinema di origine armena presso il Columbia College di Hollywood che, assieme al compagno di corso Robert Dadashian, uscendo folgorato da una proiezione di mezzanotte della celeberrima Night of the Leaving decise di realizzare una pellicola con protagonisti gli allora tanto in voga mortacci viventi, rimaneggiando in fretta e furia una sceneggiatura preconfezionata da tal Ralph Lucas. Come spesso accade per produzioni nelle quali il budget fatica di poco a raggiungere il Prodotto Interno Lordo del Biafra, anche qui l’economia regnò sovrana dal primo all’ultimo ciak, a cominciare da un parco attori quasi totalmente non professionistico, messo insieme grazie ad annunci pubblicitari e rispolveri di vecchie glorie da avanspettacolo completamente digiune da un faccia a faccia con un obiettivo cinematografico. Con tali premesse anche la logistica non fu certo cosa facile, costringendo gli stessi membri del cast e della troupe a ricoprire più ruoli simultaneamente e a contribuire direttamente all’arredamento e al guardaroba del set, arrivando addirittura a tirare in ballo gli stessi genitori del regista per rifocillare l’allegra masnada di aspiranti cinematografari con succulente leccornie dalla tradizione culinaria armena. E fu così che, ottenute le opportune scartoffie per poter girare parte degli interni in un ex convento ormai in disuso e dopo aver allungato qualche magra bustarella ad alcuni capoccia della Standard Oil per poter calpestare gli aridi terreni petroliferi nei pressi di Los Angeles, nel marzo del 1973 l’avventura di Zombie Child – all’epoca conosciuto solamente come The Child – ebbe inizio, tra mille peripezie che, assieme alla penuria di denaro, ne ritardarono il completamento sino al 1976.

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Insomma, un’odissea di ben tre lunghi anni al fine di partorire un film che, sin dal suo delirante prologo, rivela chiaramente quanto basti davvero poco per far smarrire la retta via anche ai più stoici e volenterosi, con tutte le disastrose conseguenze del caso. Basta appunto un semplice bidone di metallo, rotolato da non si sa bene dove e tantomeno perché, a far sbandare l’auto sulla quale sta viaggiando la bella Alicianne Del Mar (Laurel Barnett), cacciatasi nel profondo sfintere dell’umida e campagnola California di inizio Ventesimo secolo per prendere servizio come istitutrice presso la diroccata magione della famiglia Norton. Un inizio un bel po’ bislacco ma decisamente d’impatto, se si tiene conto che la nostra povera protagonista, nonostante ci venga detto essere nata e cresciuta proprio da quelle parti, finisce per perdersi nel giro di pochi secondi nella folta e oscura selva che costeggia la dissestata strada, venendo ben presto avvolta da un improvviso banco. Proprio in mezzo a questa fumosa atmosfera, ben rimarcata da alcune delle più fastidiose e dissonanti note che spartito umano abbia mai prodotto, la nostra Alicianne fa la conoscenza dell’anziana signora Whitfield, vicina di casa dei Norton che, come un Virgilio particolarmente attempato, la guiderà fino alla sinistra tenuta incriminata. Non prima di averla messa in guardia dai pericoli che si celano fra le fresche frasche del circondario. E così, tra gatti morti appesi alle cortecce degli alberi e misteriose figure che scorrazzano allegramente tra le lapidi di un cimitero in disgrazia, nel pieno dell’allegria e delle migliori premesse la nostra bella protagonista giunge al cospetto dei suoi nuovi datori di lavoro. Questi si palesano nella figura del burbero patriarca Norton Sr. (Frank Janson, unico membro del cast ad aver già messo piede su di un set cinematografico), il di lui primogenito Len (Richard Hnners) e la piccola Rosalie (Rosalie Cole), simpatica come una seggiolata sui denti. Della signora Norton non si hanno notizie certe, tranne il fatto di essere passata a miglior vita l’anno addietro per mano di presunti vagabondi assassini e, cosa più importante, avendo dato prova di presunte capacità sovrannaturali che, neanche a farlo apposta, la figlioletta sembra aver ereditato.

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Passa il tempo e la povera Alicianne, nonostante una castissima love story con il bel Len, inizia a subodorare qualcosina di decisamente marcio, soprattutto dopo il misterioso accoppamento della fu signora Whitfield e delle sortite notturne dell’iperattiva Rosalie presso il cimitero abbandonato, al fine di incontrare degli “amichetti” non meglio specificati. Se giunti a questo punto i più sgamati tra voi si saranno sicuramente già fatti un quadro più o meno chiaro della situazione, va detto che la nostra scream queen, probabilmente dotata delle capacità cognitive di un bradipo sotto cortisone, non sembra ancora dare segni evidenti di una qualche forma di lucidità, arrancando da un’inquadratura all’altra con stampata in viso sempre la medesima espressione da triglia sotto sale, sobbalzando ad ogni minimo scricchiolio. Ma ecco che, nel corso di una rocambolesca fuga notturna in automobile nel mezzo di una sperduta brughiera, al grido improvviso e totalmente insensato di “Gli Zombi! Gli Zombi!” cacciato fuori dalla nostra eroina, i nostri cari vecchi putrefatti amichetti fanno finalmente la loro ignobile comparsa, tentando di giustificare il sopracitato titolo e dando sfogo a tutta la loro distruttiva forza bruta. Anzi, brutta per essere precisi.  Ed è qui che viene il bello! Si perché, tralasciando un make-up alquanto innominabile che pare un incrocio fra i carnevaleschi resuscitati ciechi del grande De Ossorio e il Vendicatore Tossico di tromaniana memoria, la peculiarità più unica che rara dei non morti pare prorpio quella di essere dotati di un udito talmente fino e sensibile che un colpo di clacson ben assestato basta e avanza per metterli al tappeto senza troppi complimenti. Si gente, avete capito bene: niente più teste mozzate o cervelli spappolati. Una bella strombazzata al punto giusto e zac, il gioco è fatto. Sul come un tale insano parto della celluloide possa concludersi lo lasciamo ovviamente alla curiosità di quei temerari che, anche solo con una semplice scappatella in quel del caro vecchio YouTube, potranno rendersi conto di cosa diamine si stia parlando. Perché, così come accade per i presunti avvistamenti UFO o le tanto chiacchierate manifestazioni sovrannaturali, anche nel caso di La casa degli zombi – che i nostri cugini americani conoscono con il  tarantiniano titolo di Hide and Go Kill – è necessario saggiare con i propri occhi la materia di cui da fin troppe righe si sta disquisendo. Consci del fatto che certe cose farebbero meglio a non essere mai viste né sentite. Come si dice? Occhio non vede, cuore non duole…