Stephen King in 5 titoli

I migliori adattamenti degli ultimi 5 anni, tra cinema e serie tv
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Se quello che è forse l’unico, incontestato e universalmente riconosciuto capolavoro della filmografia ispirata all’opera di Stephen King è un film disconosciuto dallo scrittore, che dalla suddetta opera eredita poco o nulla per intavolare un discorso antitetico alla sua stessa poetica, è chiaro che un problema di adattamento esiste. L’opera di King al cinema non ha rivali in termini numerici tra scrittori antichi e moderni; eppure, la mole di prodotti è sintetizzabile in una serie infinita di insuccessi e riduzioni di serie Z, un pugno di classici (Carrie, La Zona Morta, Stand By Me, un altro paio a scelta dello spettatore) e un capolavoro, Shining, di cui lo stesso scrittore rappresenta ad oggi il detrattore principale. E’ chiaro che il problema “King al cinema” non è stato discusso a sufficienza. Spesso si è liquidato il tutto additando la generica incapacità o svogliatezza dei produttori, l’accaparramento bulimico di diritti dal troppo accondiscendente autore, il cui marchio è sempre stato sufficiente a portare in sala il minimo necessario in termini di spettatori. Per decenni ciò si è tradotto in una schiera sconfinata di b-movies da vhs diretto (con non pochi gioielli nascosti, va detto), una veloce fase-stardom coincidente con la svolta drama dell’autore a metà anni ’90 (Frank Darabont, Lawrence Kasdan), e una produzione televisiva, sempre con le dovute eccezioni (Hooper), di valore infimo. Tutto vero, ma il malinteso è a monte: è l’aver scambiato l’accademico Stephen King, colto luminare della letteratura anglosassone, come una sorta di generatore automatico di plot e soggetti in serie. Ma Stephen King non è, per citare i campioni del genere, Elmore Leonard, o Joe Lansdale, o Tom Clancy; è un autore di scuola estremamente classica, quasi ottocentesca, e come tale fa dell’ipertrofia del racconto, dell’accumulo biografico e della divagazione (oltre che di una dose non indifferente di metafisica fantastica) la propria forma espressiva e mezzo di seduzione del lettore. Impossibile da filmare in low-budget da 100 minuti. Non è un caso quindi che, sopratutto negli ultimi tempi, con l’ormai avvenuta canonizzazione dello scrittore nell’Olimpo dei grandi, a godere del trattamento migliore siano stati i brevi racconti delle raccolte; o che sia stato riscoperto l’adattamento in forma televisiva, maggiormente adatto ad abbracciare la totalità delle sue smisurate commedie umane. Dopo un decennio al limite del tragico sul piano delle riduzioni come i 2000 (da segnalare il classico istantaneo The Mist e poco altro), il periodo in corso non è male. Schivando gli scontati e claudicanti remake ispirati decennio ottanta (da It a Pet Semetary), e operazioni purtroppo nate morte come La torre nera, è dalla produzione detta “minore” dello scrittore che viene fuori la roba più interessante. Ecco quindi cinque consigli, per chi fosse interessato a rimettersi in pari, e dare una seconda chance alle avventure audiovisive del Re.

1. 22/11/63, 2016

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Uno dei King a funzionare meglio sullo schermo è quello che esula dall’horror puro per deviare sul grande racconto storico-epico, nel quale l’irruzione dell’impossibile è contingentata a scopi puramente metaforici. I film anni ’90 di Frank Darabont sono il primo esempio di questo apprezzato sotto-filone, e di questi ultimi 22/11/63 è la versione moderna; lo scrittore di Portland ha in fondo sempre scherzato dell’etichetta horror affibbiatagli ai tempi di Salem’s Lot (una storiella amara che ricorre in metà delle sue prefazioni autobiografiche), limitando quella componente a quanto necessario per un plot sempre incentrato su altro. Il serial del 2016 vede proseguire su questa falsariga nientemeno che J.J. Abrams, cultore del Re e presto al lavoro sul progettone Castle Rock. La miniserie che ne viene fuori è un’ottima (probabilmente anche superiore) prova generale, aiutata dal romanzo di maggior successo commerciale del King recente, e un divo come James Franco ad incollarsi il ruolo di protagonista. La definizione di una storia che avrebbe mostrato tutte le proprie problematiche nelle due ore (in primis il non originalissimo spunto), e che trova nella dimensione televisiva tutto lo spazio per allargare il proprio discorso ad un apologo storico e collettivo coinvolgente.

2. 1922,  2017

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Si è detto di The Mist: il film di Darabont fu la testimonianza, sicuramente a sorpresa, che se colossi come L’Acchiappasogni e Cuori in Atlantide non reggevano la prova dello schermo, lo Stephen King “minore” delle short stories poteva rendere al meglio nella presa diretta del racconto audiovisivo. Un anno prima il 1408 di Hallstrom aprì le danze, The Mist si fece instant classic: è ad oggi, quasi sicuramente, l’ultimo dei (pochissimi) semi-capolavori tratti dallo scrittore, degno di essere citato al fianco dei vari Carrie e Misery. In una sorta di apocrifa prosecuzione, il piccolo e potente film Netflix 1922 condivide la natura di adattamento minore a basso budget di una storia misconosciuta, e Thomas Jane protagonista mattatore; nel classico ruolo torrenciano (nel senso di Jack), Jane riporta in scena l’embrione del più tipico protagonista dell’autore, il bravo lavoratore blue collar padre di famiglia travolto suo malgrado dai propri demoni omicidi. Diretto da Zack Hilditch, ne viene fuori un film piccolo e potente, cattivissimo, con del sano splatter e più di una chiave di lettura interessante (economica, familiare, psicanalitica: la natura favolistica del tutto aiuta). Quasi non visto, ma da recuperare a scatola chiusa.

3. Castle Rock, 2018

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Stephen King come la Marvel: era talmente ovvio da essere solo questione di tempo, e possibilmente di recuperare tutta una serie di diritti di sfruttamento sparsi ai quattro venti nel corso dei decenni. I lettori appassionati conoscono a memoria la geografia del New England kinghiano: c’è Salem’s Lot, sonnacchiosa e deserta; c’è la cittadona industriale di Derry e il suo ancestrale patto con il diavolo; e c’è ovviamente Castle Rock, tranquilla, crepuscolare, se vogliamo intimista: è la cittadina del ricordo, del sogno, la personale versione data da King della cartolina di una vecchia America alla Norman Rockwell. E’ qui che Abrams, dopo il successo di 22/11/63, ha provato a far convergere il micro-universo kinghiano, radunando quei personaggi e quelle storie che in mezzo secolo di racconti e romanzi si erano più volte sfiorati, conosciuti, influenzati. Un racconto troppo ambizioso per riuscire interamente; la miniserie (bloccata alla seconda stagione in attesa di novità) vive al momento più di buone intenzioni e promesse, e rimane difficile capire dove voglia andare a parare. In attesa di trovargli una collocazione, resta una tappa obbligata per i completisti.

4. Doctor Sleep, 2019

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Il nodo della discordia è sempre lui, Shining. Appassionato (al limite del patetico) racconto di alcolismo e violenza domestica, di conflitto interiore e redezione fiammeggiante, il romanzo del ’77 si tradusse nelle mani del glaciale antropologo visuale Stanley Kubrick in un angosciante teorema edipico-pulsionale, affogato di simboli e portato in scena da tre pupazzi umanoidi drenati di ogni parvenza e calore umano. Il fuoco e il ghiaccio, letteralmente: il povero Mike Flanagan si trova in mezzo, chiamato a metterci una pezza e trovare la quadratura. Il seguito del romanzo, arrivato quarant’anni dopo il primo, è piaciuto a pochi: ciò ha permesso all’adattamento Warner di partire avvantaggiato. Non è il miglior film del bravissimo regista, fenomenale artigiano della ghost story qui costretto a fare spola tra il materiale di partenza, la presenza ingombrante dello scrittore patrocinante e quella ancor più invasiva del macigno culturale del 1980.  Ma il talento viene prima di tutto, e quello di Flanagan per la paura no-budget scuola Blumhouse è tangibile; rispetto agli smorti e pigri coetanei firmati Kolsh & Widmyer o Andy Muschietti, c’è un pozzo nero di differenza

5. The Outsider, 2020

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Arriviamo all’oggi, a questa stagione televisiva e all’ultimo grande adattamento prima del Covid. Guarda caso, The Outsider è una serie che parla di epidemia, di mostruosità invisibili e velenose, e dell’impossibilità di accettarne la presenza anche di fronte ai suoi più tragici effetti. Il romanzo di provenienza è poco più che un rimasticamento di temi classici (dall’ambientazione, ai temi, ai personaggi: se vogliamo, un altro sequel non ufficiale di Shining), aggiornati alla recente svolta crime dell’autore; ma la produzione extralusso HBO sbalza Stephen King fuori dal grigiume Netflix dilagante e verso la confezione stellare del procedurale poliziesco post-True Detective: attori stellari concentrati e finalmente convinti, sequenze ed interi episodi magistrali, senso dell’epicità e sopratutto grande consapevolezza del valore del racconto, portato in scena alla stregua del colosso letterario che oggi è. Altri tempi, rispetto al King acquistato e portato al cinema con venti lire un tanto al chilo, a capitalizzare sul nome e poco altro. L’autore è un classico della letteratura mondiale, e gli adattamenti iniziano a prenderne atto.