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Pet Sematary

2019
Titolo Originale:
Pet Sematary
REGIA:
Kevin Kölsch, Dennis Widmyer
CAST:
Jason Clarke (Louis Creed)
Amy Seimetz (Rachel Goldman Creed)
John Lithgow (Jud Crandall)

Il nostro giudizio

Pet Sematary è un film del 2019, diretto da Kevin  Kölsch e Dennis Widmyer.

L’universo kinghiano non smetterà mai di esercitare su noi lettori quella fascinazione che solo gli scrittori più geniali riescono a trasmettere. Il revival cinematografico e televisivo che da qualche anno ha preso piede va visto come un’operazione transgenerazionale nel momento in cui l’opera dello scrittore nativo di Portland si avvia all’inesorabile declino. Mentre It risulta ancora uno scoglio troppo duro per le produzioni odierne, troppo concentrate sul costruire grafiche accattivanti piuttosto che andare oltre la superficie, Pet Sematary, nel suo essere opera splendidamente semplice ed intima, ha sempre le carte in regola per un’operazione di redesign. Il film del 1989 (in patria Cimitero Vivente) diretto da Mary Lambert era estremamente fedele al romanzo: un buon film in cui si recepiva ancora la freschezza di quel racconto (uscito sei anni prima) e dove l’orrore non aveva bisogno di fantasmi o morti resuscitati per far sentire la sua presenza. Il Pet Sematary del 2019 si presenta invece come un rispettosissimo reboot, con necessità creative e formali differenti.

Alla guida di questa nuova operazione è stato messo il duo Kölsch-Widmyer, capace di stupire con il disturbante body-horror Starry Eyes: un interesse per la trasformazione fisica che tornerà comodo nello sviluppo inedito del film. La prima ora segue pedissequamente l’impianto arcinoto dell’opera originaria, seppur con qualche minima differenza. Ludlow nel Maine è sempre quell’angolo isolato di mondo dove i camion sfrecciano spietati e la gente non sembra proprio esistere. La processione tribale che porta per la prima volta i Creed alla scoperta del cimitero degli animali si dimostra un mero espediente narrativo, neanche così d’impatto. Ai personaggi non si demanda alcuna funzione ulteriore, già forti come sono del loro punto di vista e del loro modo di spiegare e spiegarsi. Ovviamente il succo di tutto sta sempre e di nuovo qui: un’umanità bella ma maledetta dall’amore, incapace di accettare il limite della vita, a volte anche di raccontarlo e viverlo nel modo giusto. Certamente questi momenti descrittivi tolgono molto tempo alla componente paurosa, ma bisogna ricordarsi che Pet Sematary non è solo un horror, ma anche un dramma umano molto toccante il cui motore sono i personaggi e dove ogni dialogo ha un peso specifico importante. Nasce sicuramente da questa paura di eccessiva lentezza l’esigenza di anticipare un minimo la “entrata in scena” di Zelda, così da dare qualcosa d’impatto al pubblico senza attardarsi troppo.

Avevamo già capito, nei mesi di attesa, che questo remake avrebbe rimescolato le carte in tavola, distaccandosi da alcuni nodi centrali del romanzo di King per creare più suspense. Tuttavia il terzo e ultimo atto opera solamente due cambiamenti sostanziali: il momento di crisi e il rifiuto di un finale minimamente aperto. La prima scelta può sembrare sensata, con la morte di un personaggio con cui lo spettatore è più portato ad empatizzare, conoscendone a fondo la purezza d’animo e l’innocenza. Così come Zelda, il caro estinto di questa versione avrà una rappresentazione perturbante e visivamente efficace, anche se il rimando alla Esther di Orphan appare fin troppo evidente nel trucco e nella recitazione. L’epilogo, invece, regala un twist spietato e pessimista, sicuramente d’impatto, che contribuisce a rendere questo Pet Sematary una versione accattivante, seppur non priva dello stesso difetto del nuovo It: il voler essere troppo alla portata di tutti.