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Doctor Sleep

2019
Titolo Originale:
Doctor Sleep
REGIA:
Mike Flanagan
CAST:
Ewan McGregor (Dan Torrance)
Rebecca Ferguson (Rose Cilindro)
Kyliegh Curran (Abra Stone)

Il nostro giudizio

Doctor Sleep è un film del 2019, diretto da Mike Flanagan.

Ci sono mostri affamati che torturano creature innocenti, luminosissime, per nutrirsi della loro paura, del loro dolore, in forma nebulizzata. Pensate a Monster & Co. della Pixar? Non sbagliate. Nella fattispecie, i mostri sono un gruppo di gitani, superdotati quanto a luccicanza, con il cappello come Santana e gli occhi a led come Terminator, che vogliono vivere per sempre, o quasi. L’ispirazione è forte e viene direttamente da “Il popolo dell’autunno” di sua auctoritas Ray Bradbury, nondimeno fa specie che al giorno d’oggi, in questo mondo infame, qualcuno si permetta di favoleggiare rinverdendo le fascioleggende sugli zingari ruba-mangia-bambini. Quel qualcuno, il Re, Stephen King, aveva già usato la zingaritudine come carta dei tarocchi, per scrivere un capolavoro dell’orrore: era “L’occhio del male”. In quel romanzo, una maledizione alimentare coglieva un ricco e bene inserito avvocato, con esiti felicemente apocalittici. E’evidente allora che King, bianco e provinciale indigeno del Maine, dichiaratamente democratico, trasponga nel suo immaginario le ossessioni feroci di una società ossessivamente consumistica – mangiare come arraffare, come consumare, o essere consumati –, e lo faccia servendosi degli invisibili, dei glitch, dei bachi del sistema. Com’è, come non è, parlare di nomadismo e di violenza sull’infanzia è un territorio che resta pieno di insidie, e noi, francamente, avremmo evitato, ma al contempo non abbiamo potuto esimerci dal leggere, prima, e dal guardare poi. Doctor Sleep, di Mike Flanagan. Flanagan è uno bravo, ha parecchio da dire e da fare vedere. Cresciuto bene, colto e kinghiano, fa un cinema derivativo, filologico eppure personalissimo.

La sua cifra stilistica è giunta a piena maturazione con una serie tv, The Haunting of Hill House, dove Shirley Jackson incontra Stephen King che incontra Spielberg-Hooper che incontrano Sam Raimi che incontra James Wan. Ed Alejandro Amenabar. E Ari Aster. Una scatola magica di idee, riferimenti, ispirazioni, tenute insieme da un filo sottile, anzi, da una lacrima. La cifra stilistica di Flanagan è il romanticismo, una malinconia dolorosa e consapevole che avvolge i personaggi usciti dalla sua penna e dal suo sguardo. Certo, il Danny di Doctor Sleep non è uscito dalla sua penna: lui però lo incorpora nella sua visione, lo rende più pacificato e meno bipolare, più consapevole del suo fardello e del suo posto nel mondo. Mondo che non è danny-centrico, non è statico: è dinamico, quasi ipercinetico. La storia infatti si snoda in itinere attraverso gli States, pur conservando alcuni epicentri nevralgici quali le case (mentali, o reali) e l’Overlook Hotel, dove tutto iniziò. E’ nel viaggio, nel divenire imposto dalla stessa struttura del film, che si perdono i pezzi: malgrado uno sviluppo lento, forte di 150 minuti di durata, eroi ed antieroi sono appiattiti, quasi disumanizzati. Fatta eccezioni per Danny, tutti gli altri sembrano icone perfette per un medio film di genere. Molti, sapientemente, hanno citato il Wes Craven degli anni ‘80 tra gli ispiratori della ragazzetta, grondante di luccicanza, che è l’angelo buono sterminatore in Doctor Sleep. E Wes Craven, per inciso, veniva citato anche da Muschietti nel suo It – Capitolo 1, quando i losers passavano davanti ad un cinema che proiettava Nightmare on Elm Street. Craven però, per quanto cattofobico latente, è uno sferzante, tagliente, sporca il suo horror con continue allusioni al sesso, financo alla mutilazione o all’evirazione sacrale.

Flanagan, invece, è romantico e introspettivo – così anche ne Il gioco di Gerald – e decide di rendere tutto asettico. Doctor Sleep non ha segni malsani, non è sporco, non sembra neppure malvagio. Guardiamo giovani agnelli che vengono sacrificati dalla bramosia degli zingari shining-noidi e non tremiao. Non ci sentiamo azzannati, violati, annusati, succhiati. Il senso di pericolo, la violazione della comfort zone più intima, è una costante della scrittura di King. In questa visione manca del tutto, sacrificata ad una storia che decide di giocare un’altra partita, quella della affermazione del sé e del riscatto. Fin qui, Flanagan e King. Meglio, molto meglio va se guardiamo Flanagan e Kubrick. Ovvio che lo Shining di Kubrick sia una categoria dello spirito, ovvio anche che davanti ad esso si debba restare proni, fissi. Come l’inquadratura centrale, a camera fissa, cui Flanagan ricorre più e più volte, specie nella rappresentazione degli interni. Dalla fissità al dolly, è un attimo, ed ecco Danny nell’hotel, nel salone delle feste, a ripercorrere i passi straniati di suo padre Jack Torrance. Nell’incontro tra i due, davanti all’ambra luminosissima, piena di luccicanza, di un whisky, il film raggiunge il suo climax, di devozione, di commozione, di dissoluzione. Tutto si dissolve, come l’esalazione di un ultimo respiro, come le caldaie che pompano vapore fino allo stremo. Tutto era liquido e poi non c’è più, come l’anima di una nazione che affonda i suoi ricordi e monda le sue colpe nell’alcool. Di Doctor Sleep resta un ricordo, piacevole eppure vago, come di una felice scampagnata tra i resti di una chiesetta sconsacrata, in una bella giornata di sole. Avremmo preferito che Flanagan ci portasse con sé, di notte, a profanare cimiteri.