Supersex: al di là del pene e del male

Nelle serie Supersex manca l'aspetto più interessante di Rocco Siffredi: il suo lato oscuro
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Rocco Siffredi, nome da “supereroe” di Rocco Tano, è un personaggio molto complesso, e anche complessato. Sulla soglia dei 60 anni continua a impersonificare un maschio italiano mitologico, ormai superato, che tuttavia incarna alcune contraddizioni dure a morire. C’è il Rocco arrapato che “le ha provate tutte”, famoso per le sue performance violente, e il Rocco che cerca ossessivamente l’approvazione materna e insegue i valori di una famiglia tradizionale. E poi c’è il cazzo di Rocco — non in ordine di importanza — il vero protagonista ancor prima dell’uomo, anche nella recente serie Supersex, in cui il pornodivo è interpretato da Alessandro Borghi. Onnipresente in tutti gli episodi, non tanto figurativamente — ci sono due o tre nudi frontali di Borghi — quanto più nei discorsi, il pene rappresenta il super potere del piccolo Rocco. Un dono talmente enorme da portare gioie e dolori, perchè se da una parte lo strappa a un destino da fallito dall’altra lo schiavizza a una dipendenza inquietante. O per lo meno questo è quello che Rocco racconta da sempre, spesso in lacrime, quasi a volersi giustificare davanti al pubblico e alla mamma, l’unica donna in grado di farlo vergognare di se stesso.

Il melodramma è un tratto fortemente caratteristico di Siffredi, già presente nel documentario Rocco (2016) dei registi francesi Thierry Demiziere e Alban Teurlai. Qui, come nella serie Netflix, il porno attore raccontava in voice over la sua storia, tra frasi fatte, autocompiacimento e una dose eccessiva di maledettismo. Supersex riprende questo tratto di Siffredi e lo eleva al cubo facendolo diventare il motore portante della serie. Ma un solo tratto distintivo basta a raccontare un’intera storia? No.

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Rocco (2016) Thierry Demaizière, Alban Teurlai

A mancare è lo scavo psicologico, aspetto che troviamo invece nei due film, non biografici, di Catherine Breillat (Romance, 1999; Pornocrazia, 2004) in cui la regista prende in prestito dal porno Siffredi e gli fa interpretare due film erotici ad alta carica disturbante.
Per Francesca Manieri, creatrice di Supersex, il melò serve a “liberare il porno dalla sua freddezza”, ed è proprio qui il problema, tutto il resto si perde e a rimanere è solo un’epica forzata e inevitabilmente comica. Soprattutto quando partono massime di vita come «Tu parli dell’amore, ma l’amore non lo sai che cos’è» o anche «Una cosa è fottere, un’altra farsi fottere». Anche il patinato mondo del porno italiano anni ’80 fa solo da sfondo al dramma dell’eroe, con macchiette piazzate qua e là, dal sofista del porno, Riccardo Schicchi, a una Moana poco credibile.
La bravura di un cast stellare — forzatamente sosia al limite del caricaturale — non soddisfa perchè a mancare è l’aspetto più interessante del personaggio: la sua salute mentale.

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Rocco (Alessandro Borghi) e Moana (Gaia Messerklinger) in Supersex

Il lato oscuro di Rocco viene liquidato a poche scene in cui spiega che ama la violenza perchè ha perso sua madre. Un pò semplicistico. Eppure è un fatto noto che Siffredi sia da sempre attratto dall’umiliazione, come dimostra quella che viene definita “la mitica scena del wc”, dove sbatte la testa di un’attrice dentro cesso e poi tira lo sciacquone. Solo uno tra i tanti episodi al limite che fanno rabbrividire.
Poi c’è il famigerato pompino al funerale della mamma, rappresentato anche nella serie, ma in realtà non è andata proprio così. Rocco era salito a casa di un’amica della madre e mentre lei lo abbracciava per fargli le condoglienze lui nel giro di tre secondi l’ha tirato fuori, le è venuto in faccia ed è scappato. I preliminari, questi sconosciuti.
«Io mantengo il contatto con gli occhi» dice Rocco/Borghi nella serie per spiegare che non agisce mai se non c’è il consenso. Forse riferendosi alla frase pronunciata durante un’intervista: «Io entro in contatto con il cervello delle donne, capisco quello che vogliono». Eppure il confine è molto labile. Come quando, nel 2006, Siffredi durante un’intervista prese di peso la giornalista francese Cecile de Ménibus e si servì di lei per mimare tutte le posizioni di un suo film. Una volta finito il teatrino, applaudito e fischiato da tutti i maschi presenti, lo sguardo della conduttrice era molto eloquente. Non a caso, tempo dopo, parlò di molestie, e Rocco commentò: «Non ci sta più con la testa».

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Rocco Siffredi in Pornocrazia (Anatomie de l’enfer) di Catherine Breillat, (2004)

A distanza di anni lo stile di Siffredi non è mutato, e in tutta risposta alla recentissima denuncia per molestie della giornalista Alisa Toaff ha enunciato la massima «fatti una scorpacciata di cazzi e imparerai a essere una persona normale». Amen.
In effetti i dialoghi di Supersex coicidono con quelli che Rocco pronuncia realmente da quando è diventato Siffredi, un personaggio trash che incarna un’era, con tanti punti oscuri come la dipendenza sessuale e l’angoscia di dover ripulire in continuazione la sua immagine. Incongruenze che da una parte lo spingono a liquidare il #MeToo a un movimento nato da “tante che l’hanno data e non hanno ricevuto nulla e quindi adesso parlano” e, dall’altra, ad appoggiare la ministra Roccella nelle sue crociate anti-porno. Un dualismo realmente sofferto, che suscita anche empatia, com’era emerso nell’intervista a Belve (2022), dove Rocco definiva la sua dipendenza un diavolo che più volte lo ha portato a desiderare la morte, in lotta costante tra bisogno insaziabile e desiderio di redenzione. In Supersex a mancare è il processo interiore che porta Rocco a essere ciò che è. Un vuoto riempito solo dai fasti di un passato eroico, non si sa nemmeno bene il perchè, di questo uomo-toro del porno che oggi, sul viale del tramonto, sembra più un dinosauro.