Finché morte non ci separi: i film di San Valentino

Le più dolci, letali, carine e assassine coppie del grande schermo
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La vita di coppia è certamente una gran bella rogna. Bisticci, compromessi, incomprensioni e, qualche volta, coltelli e pallottole per chiarire, una volta per tutte, chi realmente porta i pantaloni in casa. Ma, nonostante tutto, quando di mezzo c’è l’amore, quello vero, allora ogni ostacolo e avversità possono tranquillamente essere superati, creando una solida e profonda complicità che, a lungo andare, conferisce un nuovo significato al sacro giuramento matrimoniale di “finché morte non ci separi”. Ed è proprio la morte, quella con la falce e il nero cappuccio, il regaluccio che alcune strambe e letali coppiette di innamorati hanno spesso elargito a piene mani sul grande schermo, legate da un rapporto morboso e molto spesso tossico che, una volta concluse le proprie allegre efferate scorribande, li ha consegnati a una fine davvero poco gloriosa. E dunque, con l’approssimarsi della festicciola più sdolcinata di tutti i tempi, in attesa che il fido cupido faccia nuovamente scoccare le sue zuccherose freccette, inoltriamoci in un piccolo viaggetto nel tunnel degli amori e degli orrori più indicibili della storia del cinema, una gustosa selezione dei serial killer in love tra i più apprezzati – e in gran parte dimenticati – dei decenni passati. Perché, che gusto mai ci può essere ad accoppare in solitudine? Si sa, infatti, che le cose belle, importanti e grondanti sangue è sempre meglio condividerle con chi si ama. Ecco la selezione dei film di San Valentino più nocturniani.

La sangunaria (Joseph H. Lewis, 1949)

la sanguinaria

Ben prima dell’immortale Gangster Story (1969) di Arthur Penn e delle schizoidi scorribande dei Natural Born Killers (1994) di Oliver Stone, le leggendarie figure di Bonnie e Clyde avevano già iniziato a solleticare parecchi appetiti cinematografici fin dall’immediato dopoguerra, trovando in uno scatenatissimo e decisamente ispirato Joseph H. Lewis il primo chef in grado di apparecchiarne le gesta su grande schermo in una maniera decisamente sopra le righe. Fu appunto questo scafatissimo mestierante della macchina da presa, reduce da un contestatissimo noir come Mani lorde, a voler, già nel 1949, dar corpo alle gesta della più celebre coppia di amanti criminali della terra dello zio Sam, scegliendo tuttavia di infischiarsene allegramente dell’allora rigidissimo codice di censura hollywoodiano per reinterpretarne il mito attraverso una chiave decisamente torbida. E così, mentre il collega di ciak Anthony Mann si divertiva un mondo a rileggere in chiave thriller gli eventi della Rivoluzione Francese con Il regno del terrore, il nostro caro Lewis plasmava, con La sanguinaria, la prima vera serial killer in gonnella della Settima Arte, una sbroccatissima Calamity Jane in salsa Harley Quinn, mirabilmente interpretata da una cazzutissima Peggy Cummins che, in folle fissa con le armi da fuoco e supportata dal succube compagno di pistola John Dall, si dava alla pazza gioia fra le più succose banche in circolazione, senza preoccuparsi minimamente di lasciar dietro di se una lunga scia di morte, emoglobina e distruzione. Un tipico amore tossico, insomma, orchestrato e dominato da una folle femme fatale in sete di sangue – straordinariamente tratteggiata dalle taglienti penne di MacKinlay Kantor e dal temutissimo premio Oscar filo-comunista Dalton Trumbo – che, tra dialoghi improvvisati, inquadrature sperimentali e arditissime rapine in piano sequenza, consegna alla Storia del Cinema una delle coppie più scoppiate e letali mai ospitate dalla celluloide, preparando il terreno per tutte le future generazioni di amanti di letto e di coltello catturati dall’obiettivo di una macchina da presa. Ma attenzione, perché, se fino ad allora era solo gli ometti dal volto sfregiato in completo gessato, bombetta e revolver a dominare la scena, La sanguinaria dimostra per la prima volta, che, vi piaccia o meno, Deadly is the Female!

The Ghost of Yotsuya (Nobuo Nakagawa, 1959)

ghost

I nostri cari cuginetti del Sol Levante sono tipi davvero strambi. Apparentemente tranquilli, integerrimi e rispettosi, quando si tratta di vita di coppia spesso la buttano letteralmente di fuori, specialmente quando un mènage à trois finisce per durare troppo a lungo, costringendo i diretti interessati a correre ai ripari per eliminare, con astuzia e crudeltà, la pedina di troppo. La storia più vecchia del mondo direte voi. Certo, ma il primo a raccontarla con tutti i crismi del caso, riuscendo anche a provocare una sana e fottutissima paura, fu quel gran gegnaccio di Nobuo Nakagawa, il talentuosissimo nonnino dei J-horror dagli occhi a mandorla che, nel 1959, decise di tradurre su pellicola nientemeno che Yotsuya Kaidan, uno dei più famosi racconti de paura d’Oriente, incentrato su di una semplice ma fondamentale insegnamento: se proprio vuoi accoppare la tua cara mogliettina per spassartela con una giovane e bella concubina, metti in conto che il sacro giuramento matrimoniale di “fin che morte non ci separi” deve essere preso ben più che alla lettera. In poco meno di un’oretta e venti, con una suadentissima fotografia dai colori pastello, The Ghost of Yotsuya ci racconta appunto della infedelissima tresca messa in atto dal samurai Iemon e dalla di lui amichetta di lettuccio Ume per togliere di mezzo la legittima sposa Oiwa, grazie a un potente veleno che, prima di catapultarla anzitempo all’altro mondo, le riduce il bel volto peggio di un Freddy Krueger con l’erpes. Ma quando il piano dei due letali amanti sembra aver trionfato, ecco che l’incacchiatissimo spiritello della defunta consorte, ben equipaggiato con l’intero armamentario di lunghe chiome nerastre e bianche camice da notte lasciate in eredità alla futura stirpe di Samara & Co, si presenta a batter cassa, facendo sprofondare la libidinosa coppietta in un vortice di follia, incubi e visioni come solo un bel trip di funghetti potrebbe offrire. È proprio vero il detto secondo cui il crimine non paga. Se poi il misfatto viene orchestrato di comune accordo, allora il dazio da sborsare non potrà che essere doppio.

Pretty Poison (Noel Black, 1968)

Pretty poison

Fin dai tempi più remoti ci viene insegnato che l’uomo è il capo. Ma è altrettanto vera la constatazione di come la donna, in fin dei conti, sia il collo, avendo dunque la facoltà di far girare la testa ai maschietti come più le piaccia. Una considerazione che il caro vecchio Anthony “Norman Bates” Perkins, uscito fresco fresco da una vacanza premio in un ridente istituito psichiatrico con ancora parecchie rotelle fuori posto, non pare aver messo i conto prima di fingersi un agente segreto per poter così agganciare l’apparentemente dolce e ingenua Tuesday Weld, quest’ultima rivelatasi anch’essa fuori di cotenna e con un irrefrenabile sete omicida. Sono queste infatti le succosissime premesse che il buon Noel Black, con alle spalle una modesta carriera televisiva, apparecchiava, in piena contestazione studentesca, con Pretty Poison, una delle black comedy più inusuali, irriverenti e scioccanti di fine anni ’60, nella quale viene nuovamente riproposta la non certo consueta figura di una bionda dominatrice dalla rivoltella facile, qui per giunta nelle succinte vesti di una liceale acqua e sapone, decisa a sottomettere il proprio uomo al fine di darsi ai più illeciti bagordi, senza minimamente farsi scrupolo nel lasciare sul campo di battaglia i resti ancora fumanti della bacchettona mammina e di qualche incauto guardiano notturno. Quando poi la giustizia dovrà fare il suo corso, questa vedova nera dalla bionda e fluente chioma, forte del proprio conturbante fascino da fiorellino appena sbocciato, non avrà alcun rimorso nel sacrificare il proprio succube masculo, trovando campo libero per qualche nuovo letale adescamento. A metà strada fra una commediola adolescenziale alla Doris Day e una proto-tarantinata pulp in odore di Russ Mayer, questo Dolce veleno, divenuto in patria e nel mondo un piccolo cult anche grazie al romanzo di Stephen Geller She Let Him Continue da cui è tratto, ha contribuito non solo ad asfaltare la lunga e prolifica carreggiata dei killers in love a ventiquattro fotogrammi al secondo, ma ha nuovamente ribadito come il manico del coltello e la fondina della pistola siano, spesse volte, tinte di uno sgargiante e letale colore rosa.

The Honeymoon Killers (Leonard Kastle, 1970)

Dem-3 Photo. Helene Jeanbrau © 1996 cine-tamaris.tif

Mentre nel fiore degli anni ’30 i colpi di pistola dei già citati Bonnie Parker e Clyde Barrow risuonavano allegramente nel sud degli Stati Uniti, nei flemmatici e bellicosi anni ’40, a qualche contea di distanza, quei gran mattacchioni di Raymond Fernandez e Martha Beck, lungi dal possedere il fascino e i l’aura mitologica dei loro colleghi di lercia fedina penale, si davano alla pazza gioia nel circuire, accoppare e derubare vogliose e indifese vedovelle rimorchiate tramite annunci di cuori solitari, sfruttando l’aplomb dell’ispanico playboy unito alla spietata crudeltà omicida della corpulenta matrona di turno. Un legame morbossissimo e decisamente mortifero che non mancò di stuzzicare le fantasie del produttore Warren Steibel, il quale volle nientemeno che un giovanissimo Martin Scorsese per dirigere, in piena esplosione della Nuova Hollywood, un biopic ad uopo intitolato The Honeymoon Killers, dovendo però ben presto ripiegare a sorpresa sul musicista Leonard Kastle dopo che il futuro autore di Taxi Driver venne licenziato in tronco a causa di infelicissime bagarre contrattuali. Poco male, poiché solo due anni dopo con America 1929 – Sterminati senza pietà, Martin bello avrebbe fatto capire a chiare lettere di aver avuto fin da subito le carte in regola per poter dar corpo alle gesta di questi due amanti letali – ben fritti sulla sedia elettrica con un numero imprecisato di cadaveri sul groppone – nonostante lacci e lacciuoli produttivi, in un decennio in cui, tra il solidissimo The Getaway (1972) di Peckinpah e il dolente La rabbia giovane (1973) di Malick, il fascino dei killer innamorati aveva iniziato a dilagare come un’epidemia. Ma non serve abbandonarsi al rimpianto, poiché dal canto suo Kastle ha svolto davvero un egregio lavoro nel dirigere Tony Lo Blanco e Shirley Stoler nelle scomode vesti di una coppia criminale fra le più brutali a favore di cinepresa, preparando la strada a numerosi rivisitazioni che, dal pruriginoso Profundo Cremisi (1996) di Arturo Ripstein al postmoderno Alleluia (2014) di Fabrice Du Welz, passando per lo stilosissimo e davvero poco filologico Lonely Hearts (2007) di Todd Robinson, hanno fatto conoscere al mondo intero tutta la brutalità e l’orrore che si possono celare dietro a una gelosia portata ai massimi livelli.

Psychos in Love (Gorman Bechard, 1987)

Psychos in love

Gli anni ’80, cinematograficamente parlando, ci hanno vomitato addosso parecchia robetta, qualche volta di gran fattura e, in altre occasioni, decisamente al limite del trash. Senza dover per forza tirare in ballo le varie Troma e Full Moon, basti ricordare che nel glorioso 1987, in pieno edonismo reaganiano e con ancora gli ormoni ad alta quota di Top Gun ben in circolo, un tipetto decisamente anonimo del Connecticut di nome Gorman Bechard con alle spalle uno sci-fi di serie Z dallo sballatissimo titolo di Galactic Gigolo, se ne uscì bello bello sugli schermi di mezzanotte del famoso Bleecker Street Cinema di Greenwich Village con Psychos in Love, una schizzatissima e sbrodolante horror comedy che, unendo un caustico humor alla Woody Allen con il delirio nonsense dei Monty Python e il ritmo indiavolato delle gag dei Fratelli Marx, metteva brillantemente in scena la storiella parecchio malata del barista Joe e dalla shampista Kate, entrambi molto carini e altrettanto assassini, dediti alla delicata arte dell’ammazzamento seriale e pronti, dopo un provvidenziale colpo di fulmine – e di coltello – a unire le proprie forze in nome dell’amore per la carne cruda, specialmente se umana e ben frollata. Mentre le loro marachelle proseguono senza sosta, in turbinio di situazioni al limite del surreale, culminate con un bel falò di cadaveri nei sotterranei della loro amata casetta, i due killer innamorati dovranno ben presto vedersela con un inaspettato concorrente: un micidiale idraulico cannibale pronto a ricattarli senza alcun pudore. Un gran bel casotto, non c’è che dire, il tutto concentrato in meno di un’oretta e mezza e per gran parte frutto di esilaranti improvvisazioni direttamente sul set, tutti ingredienti in grado di rendere questa mad love story uno scult assoluto, intriso di battutacce, cattivo gusto e tante belle frattaglie assortite. Tutta robetta che per noi, grandi intenditori del laido e del corrotto, appare gustosa come il cacio sui maccheroni. Specie in un decennio in cui, tra gli attempati giocattolai dell’immortale Dolls (1987) di Stuart Gordon, le gesta del putrefatto Frank e della di lui ex mogliettina Julia, procacciatrice di anime e sangue nell’Hellraiser (1987) di Clive Barker, e, ovviamente, gli amanti locandieri proprietari del terribile Motel Hell (Kevin Connor, 1980) in cui si spaccia carne umana affumicata, di killer couples coi controcacchi c’era solo l’imbarazzo della scelta.

I sonnambuli (Mick Garris, 1992)

I sonnambuli

Pensavate di aver già la risposta pronta, vero? E invece, cari amici, stavolta vi cogliamo alla sprovvista, tirando in ballo una delle coppiette assassine meno brillanti ma certamente più suggestive degli stilosi e avantpop anni ’90. Il tutto mentre quegli Assassini nati (1994) di Juliet Lewis e Woody Harrelson se la scorrazzavano in lungo e in largo per la route 66 seminando il sacro terrore e, nel frattempo, in quel della ridente Nuova Zelanda, quelle due giovani e subdole Creature del cielo (1994) di Kate Winslet e Melanie Lynkey, ben dirette da quel gran volpone di Peter Jackson, organizzavano una bella fuga d’amore con tanto di accoppamento dell’opprimente e poco collaborativa matrigna. L’oggetto della discordia, scaturito da una delle più infelici idee del maestro Stephen King, non può che essere, ovviamente, quel piccolo disastro annunciato che fu I sonnambuli, storiellina – almeno sulla carta – tutto sommato accattivante, che descrive gli ultimi discendenti di un’antica stirpe di vampiri mutaforma, affamati di sangue di vergine che, nonostante siano all’anagrafe madre e figlio, in barba al più elementare tabù dell’incesto, se la intendono alla grande come marito e moglie, cercando di cacciare il pasto quotidiano senza farsi beccare tra il chiaro e lo scuro da qualche gattino di passaggio, unico essere sulla faccia della terra a poterne percepire la vera natura. Quando però di mezzo ci si mette una bella preda liceale non certo pronta a farsi sbranare senza prima tirare fuori le unghiette, allora le cose inizieranno a girare parecchio male per i due morbosi consanguinei assassini dai dentoni aguzzi. A voler ben vedere c’è davvero tutto per un colpaccio coi fiocchi: sangue, budella, vampiri, incesto, camei d’eccezione di maestri del genere come John Landis, Joe Dante, Clive Barker, Tobe Hooper e lo stesso King. Allora che cos’è che è andato storto? Beh, un po’ tutto a dire il vero, a cominciare dalla sbarellatissima e a tratti infantile regia del kinghiano ad honorem Mick Garris e, a condire il tutto, una patinatissima atmosfera da seconda serata televisiva. Ma che ce ne frega dopo tutto? La coppia assassina ce l’abbiamo, giusto? E per il 1992 può andar tranquillamente bene così. Ma se proprio non ce la fate, beh, allora c’è sempre La sposa di Chucky (1998), dove, diciamoci pure la verità, i pupattolosi ammazzamenti di coppia sono decisamente di più alta qualità!

Mum & Dad (Steven Sheil, 2008)

mmum dad

Fermi tutti: non stiamo ovviamente parlando della mattanza genitoriale messa in atto da Nicholas Cage e Selma Blair contro i propri pargoletti in Mom and Dad (2017) di Brian Taylor, anche se, a guardar ben bene, in Mum & Dad quel gran simpaticone di Steven Sheil ci racconta, con quasi un decennio di anticipo, una solfa molto molto simile. Siamo infatti al cospetto di una corpulenta coppietta in sapor di follia omicida che, senza alcun particolare evento sovrannaturale a guastarne li già rancidi neuroni, pensa bene di ingrossare le fila della propria famigliola rapendo poveri e povere adolescenti, sottoponendoli alle più atroci e umilianti torture in caso di disobbedienza. Con un padre intento a masturbarsi furiosamente per tre quarti di film e una madre predatrice che serve con fulgida nonchalance peni umani per colazione, capite bene che questo malatissimo parto di una mente registica ancor più malata non può che battezzare alla grande l’avvento del nuovo millennio, all’insegna di un nuovo modello ormai collaudato di coppietta assassina che, dopo decenni passati ad agire in solitaria, ha ora deciso di mettere radici e di far germogliare il proprio albero genealogico, anche a costo di scippare la materia prima a destra e a manca. Dove prima c’erano pistole e proiettili ora è invece il gran trionfo degli oggetti contundenti, utensili di prima necessità impiegati dagli amanti assassini 2.0 per districarsi fra le marce radici di un’epoca in qui, mentre imperversa la terribile autodistruzione generata dalla contagiosa paranoia di coppia del Bug (2006) di William Friedkin, si fa nel frattempo strada l’altrettanto efferato annientamento reciproco a suon di evirazioni fra Willem Dafoe e Charlotte Gainsburg nell’Antichrist (2009) di Lars von Trier. Senza ovviamente scordarsi l’allegro Grand Guignol imbastito dal barbiere Johnny Depp e dalla di lui complice Helena Bonham Carter a suon di rasoiate, canzoncine e pasticci di carne umana nella versione cinematografica dello Sweeney Todd (2007) burtoniano.

Matriarch (Scott Vickens, 2018)

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L’amore non ha età. Specialmente se, dopo anni e anni di onorata vita matrimoniale, ormai abbondantemente superato lo scoglio dei doppi e tripli “anta”, i tanto agognati pargoletti continuano a non voler arrivare. Come fare allora? Ma è semplice: basta buttare alle ortiche ogni parvenza di sanità mentale e costringere il proprio amato maritino a rapire giovani puerpere capitate casualmente nei pressi di una casetta sperduta nella campagna scozzese, segregandole fino al momento del parto e, dopo avergli scippato il nascituro ancora caldo e frignante da sotto la gonna, sotterrarle nel giardino dietro casa, in attesa di una nuova promettente giovincella infornata a dovere. Una storiella certamente agghiacciante quella concepita dal giovane Scott Vickens con Matriach, un indie horror dall’impianto decisamente modesto ma che, come da titolo, dimostra alla perfezione come, in barba al presunto gentil sesso o sesso debole che dir si voglia, la mente che muove la mascolina mano armata di coltello è, spesse volte, proprio quella marchiata dal cromosoma doppia X. E stavolta l’attempata femme fatale ha proprio il carisma e la spietatezza di una megera che si rispetti, capace come pochi di assoggettare il complice schiavetto alle proprie sadiche fantasie di madre mancata, collezionando feti come fossero figurine Panini e ingrassando ben bene le begonie da giardino con i cadaveri delle sfortunate partorienti di passaggio. Ed è proprio in questi casi che gli ometti di turno, con il peso dell’esperienza sul groppone, capiscono sino in fondo che cosa significhi “per amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”.