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La donna più assassinata del mondo

2018
Titolo Originale:
La femme la plus assassinée du monde
REGIA:
Franck Ribière
CAST:
Anna Mouglalis (Paula Maxa)
Niels Schneider (Jean)
Eric Godon (Georges)

Il nostro giudizio

La donna più assassinata del mondo è un film del 2018, diretto da Franck Ribière.

Il Grand Guignol è – in estrema sintesi – un teatro parigino che metteva in scena spettacoli macabri, violenti e sanguinari: attivo dal 1897 al 1963, si diffuse contemporaneamente anche a Londra, ed è considerato l’antesignano del cinema horror – in particolare del filone splatter. Molteplici sono i film dell’orrore che hanno ambientato le storie nel Grand Guignol: da classici quali Il teatro della morte e I terrificanti delitti degli assassini della via Morgue all’horror-comedy francese Grand Guignol, fino a un altro recente film francese, La donna più assassinata del mondo di Franck Ribière, distribuito da Netflix. Trattasi di un film particolarissimo, a metà fra il thriller orrorifico e la fiction storica, riuscito e appassionante sotto entrambi gli aspetti: la protagonista è Paula Maxa, attrice di Grand Guignol realmente esistita, “uccisa” negli spettacoli più di diecimila volte e in sessanta modi diversi, sulla cui vicenda gli sceneggiatori e il regista mescolano armoniosamente realtà e finzione. Troviamo Paula Maxa (Anna Mouglalis) nel 1932 a Parigi, quando il Grand Guignol è in ascesa ma anche oggetto di feroci critiche da parte del pubblico più bigotto, che lo accusa di immoralità e istigazione alla violenza. Nei dintorni del teatro agisce intanto un serial killer che uccide brutalmente varie prostitute, e sul quale indaga il giornalista Jean (Niels Schneider). La Maxa, tormentata da un trauma adolescenziale, è perseguitata anche dalle lettere minatorie di un maniaco che sembra volerla ucciderla realmente: forse è lo stesso killer delle prostitute o qualcuno che viene dal suo passato?

La donna più assassinata del mondo (frase con cui la Maxa ama definirsi) è probabilmente il film più compiuto sul Grand Guignol: è innanzitutto un tributo a questo importantissimo teatro dell’orrore, più indirizzato in questo senso che nella componente gialla (comunque ben costruita), un atto d’amore che presta un’attenzione scrupolosa alla ricostruzione scenica e alla creazione diegetica degli effetti speciali – il laboratorio e la figura dell’effettista sono fondamentali nella vicenda. La ricostruzione storica è accurata, tanto nelle scenografie e nei costumi quanto nella rappresentazione socio-culturale: a questo si ascrivono le manifestazioni dei detrattori, secondo i quali il Grand Guignol è immorale e induce alla violenza – un po’ quello che accade(va) anche con il cinema dell’orrore – ma anche le riflessioni non banali su come la nascita del cinema horror abbia condotto il Grand Guignol (da cui pure deriva) al declino. Gli spettacoli grandguignoleschi sono messi in scena varie volte da Ribière, con un gusto estetico fedele alle recite originali, dunque con schizzi di sangue, deorbitazioni, sgozzamenti e quant’altro – il tutto nelle situazioni più macabre possibili, ad esempio un manicomio. Le numerose scene di sangue, tutte di ottimo artigianato, sono sia omicidi nella diegesi teatrale (quelli esemplificati poco fa), sia delitti nella componente mystery esterna, dunque gli omicidi del serial killer – una donna impalata in gola, un’altra sgozzata; un dualismo che crea un cortocircuito tra finzione e realtà, il quale è alla base di tutto il film ed esplode nell’intricatissima conclusione.

Un finale dove restano (volutamente?) molti punti oscuri e che è aperto all’interpretazione dello spettatore: ma in fondo, a Ribière non interessa tanto costruire un thriller dove tutto torna, quanto un dramma dalle atmosfere horror che rispecchia un certo ambiente. La donna più assassinata del mondo è un film che odora di assenzio, nebbia e sangue finto, ma non solo: è un’opera dove sequenze degne di un film su Jack lo Squartatore sono mescolate a citazioni argentiane (il guanto nero, il flashback col trauma che si disvela man mano, le scarpe sulla spiaggia che ricordano Tenebre), fulciane (l’elenco dei vari omicidi in scena di Paula Maxa richiamano l’incipit di Un gatto nel cervello) e momenti onirici (incubi e ricordi), in una fusione mirabile di gotico, splatter e spleen malinconico. Per niente banale è infatti la costruzione dei personaggi, in particolare la bellezza severa e tormentata della Mouglalis (attrice vista più volte nel cinema italiano) e il viveur Schneider (che ricordiamo in Curiosa). Franck Ribière, produttore di vari film di Alex de la Iglesia, è qui al debutto in un lungometraggio, ma la compattezza narrativa fra generi diversi e alcune sottigliezze stilistiche (una su tutte, la lunga inquadratura rotante dall’alto sui due protagonisti sdraiati) dimostrano una spiccata creatività registica, supportata dalla fotografia gotica e dalle musiche.