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Red Dot

2021
REGIA:
Alain Darborg
CAST:
Anastasios Soulis (David Daftander)
Nanna Blondell (Nadja Daftander)
Thomas Hanzon (Tomas)

Il nostro giudizio

Red Dot è un film del 2021, diretto da Alain Darborg.

Non sono molti i metri di paragone per quanto sta riuscendo a mettere in piedi la Svezia, e il Nord Europa in generale, in termini di produzione cinematografica di massa. Un’offerta che sta trovando nell’ormai egemone mondo della distribuzione OTT il suo terreno d’elezione, e di cui Red Dot rappresenta soltanto l’ultimo tassello. Nell’ultimo mese, proprio Netflix ha sorpreso il suo pubblico con un’infornata significativa di proposte scandinave, culminata con il recente successo del film di Alain Darborg. Un successo aleatorio e fluttuante, come sempre nel caso dell’on demand, dove i consumi si impongono e scompaiono in capo a un pugno di pomeriggi; ma il riuscire a leggere e cavalcare queste tendenze non fa che testimoniare lo stato di forma dell’industria. Red Dot è dunque l’ultimo investimento di quella che è oggi una vera e propria Hollywood in piccolo. Generi su generi, target rigorosamente internazionale e intercontinentale, soldi e investimenti con ambizioni da blockbuster; tutto nell’arco dell’ultimo decennio, partito con l’ormai celebre trend del poliziesco televisivo (divenuto un genere a sé stante) e nell’ultimo biennio protagonista di una vera e propria invasione a bassa intensità, con Bloodride, Quicksand, i cugini Bordertown e The Rain (Danimarca e Finlandia) solo per citare i successi maggiori. Prodotti forse non di altissimo profilo, ma sufficienti a collocare sulla mappa una scuola fino a poco tempo fa circoscritta al solo cinema d’autore. Oggi l’area scandinava è una vera catena di montaggio cinematografica, senza nomi imponenti, ma con materiale sufficiente a venire incontro ad ogni forma di domanda.

Certo, in confronto alla Francia di Besson e dell’EuropaCorp mancano uno o due veri successi mondiali, e rispetto alla Corea non spiccano grandi autori commerciali da mandare a premi. Ma il successo di questa industria resta l’ennesima dimostrazione di quanto si potrebbe fare se ci si approcciasse al Genere con professionalità e ambizione, nell’era del pubblico espanso dello streaming. I primi passi sono stati fatti: inseguire potrebbe non bastare più. Red Dot è dunque (quasi) tutto ciò che dovrebbe essere per adempiere alle proprie funzioni commerciali: un valido, teso thriller con venature di survival horror, che valorizza la singolarità di un territorio ancora cinematograficamente vergine come le foreste della taiga scandinava, per puntare a un pubblico essenzialmente straniero. Nel film, la neo-coppia ben nota di tanto cinema americano e non (giovani, carini, idealizzata classe media) decide di dare una svolta al proprio sofferto primo anno di matrimonio con una vacanza a cielo aperto nelle distese innevate dell’entroterra. Come nel vecchio glorioso cinema americano di Hooper, Craven e Boorman, l’incontro tra l’umanità cittadina “civilizzata” e il rimosso extraurbano e contadino degenererà nell’incubo; a peggiorare le cose, la natura di “coppia mista” di Nadja (Nanna Blondell) e David (Anastasios Soulis), capace di scatenare i sopiti rancori reazionari di un gruppo di surreali redneck in pickup e fucili da caccia. Red Dot è talmente astuto e millimetricamente calibrato sul suo modello, da rischiare effettivamente di perdersi qualcosa. Nell’adeguarsi agli standard narrativi ma soprattutto tematici del genere, il film racconta un incubo di razzismo che pare traslato di peso dal black belt americano, più che da qualunque manifestazione analoga nordeuropea; uno script a tutti gli effetti hollywoodiano, rigirato in territorio locale senza porsi alcuna questione di adattamento.

Facendo propri i luoghi comuni dei film omaggiati, Darborg arriva quindi a negarsi quel pizzico di caratterizzazione culturale essenziale per distinguersi dalle controparti anglofone: problema che il resto del cinema di genere mondiale, sia esso asiatico, nigeriano, franco-spagnolo e ovviamente italiano, ha ben compreso e superato. Resta la piccola dannazione di questa scuola di blockbuster scandinavi, talmente perfetti e studiati per aderire agli standard USA, da non portare nulla della propria origine; al centesimo serial o film tv, nell’ennesima anonima cittadona innevata, non sembriamo saperne tanto di più della realtà raccontata di quanto non facessimo all’inizio. Detto questo, un lavoro come Red Dot, con tutti i suoi alti e (molti) bassi, mostra una consapevolezza e un’ambizione che, sul piano dell’action low budget, lo pone ampiamente avanti a molti cugini europei. Pur puntando in basso, neanche per un secondo la sua spietata caccia all’uomo pare messa in scena al risparmio; il film non si tira indietro in termini di violenza e sgradevolezza, e riesce a mettere insieme almeno un paio di idee grafiche apprezzabili. Assodate le origini filmiche del suo tranquillo weekend di paura, il punto di riferimento temporalmente più vicino può essere allora il The Grey di Joe Carnahan; film ovviamente superiore, ma con il quale Alain Darborg si confronta con la giusta cattiveria. A voler fare le pulci, Red Dot esaurisce molto del suo slancio nell’ultima mezzora, perdendosi per strada il gran finale che gli si chiedeva per una svolta a base di colpi di scena sotto tono non particolarmente richiesti. Ma si tratta pur sempre di un prodotto perfettamente calato nell’aurea mediocrtias dei medi-mediocri Originals Netflix; sarebbe ingiusto chiedere di più.