Così parlò George A. Romero

Il padre degli zombi si presenta
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Sono nato e cresciuto a New York. Poi mi sono trasferito a Pittsburgh per andare all’Università, a studiare pittura e design. Mio padre era un artista e mi ci sono voluti tre anni per capire che non ero al suo livello. Così sono passato a frequentare il corso di arti teatrali perché credevo che mi avrebbe stimolato di più e che potevo avere maggiore successo. All’epoca non pensavo ancora che sarei diventato un regista cinematografico, ho sempre visto il cinema come qualcosa che uno intraprende se appartiene all’ambiente, se ci è nato. Pensavo che mi sarei forse dedicato al teatro; ma il cinema era la mia vera ossessione, insieme ai fumetti della DC. Mi ricordo che allora la Universal aveva ridistribuito una serie di film horror con i classici mostri della fantascienza, che io andavo puntualmente a vedere al cinema. La paura è sempre stato un genere che mi attirava; però non avrei mai immaginato, andando a vedere questi film, che un giorno sarei diventato un regista horror. All’epoca non c’erano ancora i video, per cui anche i telegiornali venivano fatti su pellicola e c’erano moltissimi laboratori. Fu in uno di questi che cominciai ad avere dimestichezza con il mezzo. Inizialmente facevo il garzone e portavo le pellicole dal laboratorio agli studi. Abbiamo cominciato realizzando spot commerciali e ben presto capii che avevamo l’equipaggiamento sufficiente e le luci per poter fare un film vero. Decidemmo che potevamo fare il grande salto e il risultato fu La notte dei morti viventi.

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Il cinema horror è il mezzo di espressione che ho scelto per comunicare opinioni precise e una visione critica del mondo. Spero di riuscire a farlo senza moralismi, anche per questo ho sempre scelto di essere chiaro nelle metafore “sbattendole” in faccia allo spettatore senza troppi sofismi. Certo, ai tempi di La notte dei morti viventi ero molto giovane e un po’ confuso, pensavo soprattutto al cinema in quanto tale, erano gli anni delle vagues europee ed eravamo convinti che la macchina da presa fosse già di per sé uno strumento rivoluzionario. Poi sono diventato meno idealista e più consapevole di quello che volevo dire, credo a partire da La città verrà distrutta all’alba (1973). Adesso, penso prima al tipo di argomento che voglio trattare e poi ci costruisco intorno una storia. Non parlo degli adattamenti tipo La metà oscura, in cui c’è molto Stephen King, ma di cose tipo Knightriders o la trilogia degli zombi. Ricordo che quando è uscito Zombi, i critici dicevano che dietro la storia c’era un messaggio: ma il messaggio non era dietro, era in faccia a tutti quanti! In America, La notte dei morti viventi veniva proiettato a mezzanotte e la gente si travestiva, citava le battute a memoria, rideva quando saltavano fuori gli zombi. Era solo qualcosa di divertente e innocuo. Non credo abbia avuto un grande impatto e nemmeno che l’abbiano considerato espressione della società di quegli anni.

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Penso di potermi definire, innanzitutto, un regista indipendente. Totalmente indipendente. Essere totalmente indipendenti è meraviglioso. Quello che molta gente non capisce è che a volte avere troppi soldi può essere più difficile. Hai molte responsabilità e quindi molta pressione. Non puoi rischiare di far perdere alla gente un così cospicuo investimento. Non puoi cambiare idea quando ti pare e andare un giorno sul set con l’intento di ribaltare le carte in tavola, come facevo nel mio ultimo film, Survival of the Dead. Recentemente mi hanno chiesto di dirigere alcuni episodi della serie The Walking Dead: gli ho detto di no e sono contento di averlo fatto, anche se conosco e stimo alcuni degli autori di quel serial. I miei zombi – anche se così sembrerà che io voglia essere troppo presuntuoso – non hanno niente a che vedere con tutti questi film del “nuovo corso”. Ho sempre pensato che i morti viventi (non li chiamavo zombi, non li avevo creati come zombi: per me gli zombi erano quelli della tradizione caraibica, non avevano niente a che vedere con i miei “ghouls”) che ho messo in scena nei film che ho diretto fossero una specie di reagente antropologico in grado di rivelare la stupidità e l’inettitudine degli esseri umani di fronte a un evento imprevedibile. Mi piacerebbe continuare a lavorare a un bel progetto, un film tratto dal romanzo che ha scritto un mio amico, di nome Steven Schlozman, un medico e psichiatra: The Zombie Autopsies. Racconta di come un gruppo di scienziati, compiendo delle autopsie sugli zombi, scoprono qual è stata la causa reale dell’inizio del fenomeno: non un evento naturale o divino, ma qualcosa pianificato dagli uomini, da un gruppo di potere, con alle spalle un preciso movente economico. Una grande storia che utilizza gli zombi per parlare di altro. Esattamente come piace a me… Stay scared!