#iostoacasa: esorcizza la paura con Nocturno

In regalo a puntate: Pandemia - Guida al cinema (anti)batterico - Capitolo 1
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 #iostoacasa. Per allietare la noia della quarantena Nocturno ha pensato di regalare ai suoi lettori il Dossier del 2009 dal titolo “Pandemia” – Guida al cinema (anti)batterico, che nei prossimi giorni potrete trovare a puntate sul nostro sito. Perché questa scelta? Perché non c’è modo migliore per esorcizzare le proprie paure, vedendole prendere vita sullo schermo in una sorta di catarsi depurativa, soprattutto in un momento come questo in cui la realtà supera la fantasia. Ma anche perché in questo periodo di reclusione è bene approfittare del tempo che si ha per trovare nuovi input e suggestioni, sia visive che letterarie. In questo Dossier troverete tante riflessioni e diversi titoli da rivedere o scoprire. Preparatevi per un viaggio pandemico e ricordatevi di stare a casa, anche se forse, dopo la lettura, ne avrete ancora più voglia…

INTRODUZIONE di Davide Pulici

Grandi morbi, che da un lato accumulano i cadaveri e svuotano il mondo, si sono sempre rivelati produttivi dal punto di vista artistico. Ciò che distrugge, allo stesso tempo crea. L’epidemia di peste (l’etimologia del termine si riconnette al latino pessimus, “il peggiore” – s’intenda “dei mali”) che falcidiò Atene durante la Guerra del Peloponneso e che pare non fosse affatto peste ma un tipo di influenza molto aggressiva, ha fatto sì che Tucidide scrivesse le sue pagine immortali che descrivono quell’inferno. E che Lucrezio, secoli più tardi, forgiasse i mirabili versi sui quali la sua mano si fermò, lasciando Il De Rerum Natura incompiuto: “E molti segni di morte si manifestavano allora. La mente sconvolta, immersa nella tristezza e nel timore, le ciglia aggrondate, il viso stravolto e truce, le orecchie tormentate e piene di ronzii, il respiro frequente o grosso e tratto a lunghi intervalli, e stille di sudore lustre, lungo il madido collo, sottili sputi minuti, cosparsi di color di croco e salsi, a stento cavati attraverso le fauci da una rauca tosse”. Grandi mali, grandi opere. Galeno, maestro della medicina ellenistica così come di quella islamica, intuì nei suoi testi che le infezioni pandemiche, come quel morbo di Antonino, forse vaiolo, che tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo si stima abbia ucciso cinque milioni di persone, si diffondono per contatto (“simul inhabitare cum peste correptis lubricum est”). Pare poco ma era moltissimo in un mondo dove si riteneva che la peste fosse, teste Ippocrate, causata solo dall’aria (“ex communi aere omnibus communi”). Via via, tragittando i secoli e assottigliando le generazioni, le pandemie hanno sempre trovato i loro degni cantori: lo storico Procopio ha, tra i molti, il merito di avere eternato la prima esplosione nota della peste bubbonica. Sui riverberi letterari delle pestilenze medievali è persino inutile soffermarsi, citando le prose del Boccaccio o le liriche del Petrarca, orbato di Laura dalla Mors Atra (la Morte atroce mal tradotta come Morte nera), il cui ributtante vettore era la Xenopsilla cheopsis, una cimice che infesta i ratti. Vertici di sublimità da abissi di schifo e raccapriccio. La peste e la penna scrivono la nostra storia, ci dicono ciò che siamo: Defoe, Poe, Manzoni, Artaud, Camus…

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Sindrome da immunodeficienza acquisita, detta AIDS. Influenza aviaria o bird-flu, Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome), Encefalopatia bovina spongiforme (la “Mucca pazza”). E, perfido ultimo, il virus A/H1N1, artefice di quella che, confidenzialmente, chiamiamo “la suina”. I morbi, in predicato di divenire epidemie e quindi pandemie, oggi à la page sono, fin dai nomi, entità domestiche, dimesse, umili.  Vuoi mettere l’ominosità e quasi il trionfalismo con la quale si presentarono il Vaiolo, la Febbre Tifoide, la Morte Nera nei secoli che furono? Sarà anche per questo che i grandi morbi, oggi, scacciati dalla grande letteratura, si devono contentare di Richard Matheson, Stephen King, Clive Barker. O accettare di trasformarsi, con una rimarchevole deminutio capitis, in materia elaborabile nei processi del cinema di genere. Che, peraltro, offre loro cittadinanza facendoli quasi sempre a mezzo con altri temi (gli epidemici-zombi, gli epidemici eco-vendetta, gli epidemici-action, gli epidemici-vampireschi), perché da soli, i mali del Duemila, non reggerebbero novanta minuti di storia. Un virus è invisibile, non ha massa osservabile e apprezzabile. È un’astrazione che si attualizza solo nell’effetto, il quale, a sua volta, funziona solo quando è speciale, cioè fantastico, cioè, in ultima analisi, apotropaico. Gli esempi al contrario si contano sulle dita di una mano sola e sono, senza mezze misure, o capolavori come l’Andromeda di Robert Wise (da Crichton, che scrisse la traccia della novella ispiratrice quando era uno studentello ) nel quale il noumeno prevale nettamente sul fenomeno, o orridezze del tipo Virus letale – Outbreak di Wolfgang Petersen, che è pura fenomenologia senza alcun pensiero, e ci tortura per quasi due ore con Dustin Hoffmann, Morgan Freeman e una specie di variante impazzita dell’Ebola che fa piangere sangue. Invece è notabile come negli anni Sessanta o Settanta (prima c’è però un Kazan non trascurabile come Bandiera gialla, del 1950, che torna ad agitare lo spettro della peste a New Orleans)  l’immaginario comune e di riflesso anche quello cinematografico non pagasse dazio alla paura di grandi mali ecumenici. Vero è che non gravavano minacce pandemiche recenti e che il ricordo delle stragi mietute dalla spagnola o dall’asiatica sopravvivevano solamente nei ricordi degli avi. In quegli anni i virus malevolenti entravano spesso e volentieri, invece, nella formula dei film catastrofico-cospirazionisti, tramite la situazione tipo della provetta rubata da un laboratorio che rischia di rovesciare sulla Terra il contenuto di un velenoso vaso di Pandora. Ci passano gli 007, ovviamente (Agente 007 al servizio di sua Maestà), ci arriva la fantascienza (Satan Bug, di John Sturgess), sfreccia da quelle parti anche il treno infettato e sigillato col piombo per essere distrutto, con a bordo Sophia Loren, di Cassandra Crossing. Nemmeno il poliziottesco italiano ne resta immune, con Milano: il clan dei calabresi e il suo malavitoso protagonista, che all’ombra della Madonnina rischia di morire per il morso di una cavia infetta.

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The Satan Bugg (1965), John Sturges

IL MORSO DEL CONTAGIO di Riccardo Fassone

La condizione necessaria per diventare zombi è quella di essere morti. Sebbene cause (esperimenti nucleari? riti voodoo?) e modalità della zombificazione siano spesso piuttosto oscure, le certezze sono due. Uno: bisogna essere cadaveri. Due: si ri-muore solo tramite decapitazione o pallottola nel cranio. Questo in teoria, perché il canone condiviso dello zombi movie contiene titoli che non rispettano le suddette regole. Che dire, ad esempio, di 28 giorni dopo (28 Days Later, Danny Boyle, 2002)? Stylus Magazine, defunta rivista online, lo inserisce al secondo posto in una classifica dei migliori film di zombi della storia. Curioso, perché – ce lo ricordano con insistenza gli aficionado del genere in blog e forum – nel film di Danny Boyle di zombi propriamente detti non ce ne sono. Certo, l’Inghilterra è invasa da creature affamate di carne umana e dotate di scarsa coscienza di sé, ma a ben vedere l’orda di cannibali non è composta da cadaveri rianimati, ma da viventi infetti. Non-non-morti, insomma. È bene, dunque, pensare a quello degli infetti-che-sembrano-zombie come a un sottogenere dello zombi movie? O, piuttosto, persistere nell’equazione zombi = morto? Sofismi che, come detto, la vulgata critica ha già ampiamente superato, assimilando sostanzialmente film come quello di Danny Boyle a un genere più ampio in cui zombie e infetti sono in pratica indistinguibili. In una ricognizione sul cinema della malattia, però, la distinzione ci è utile, dal momento che la variante patologica dello zombi movie costituisce un sottoinsieme del più ampio canone del film pandemico. Come per gli altri film (quelli con gli zombi veri, per intenderci), anche per gli infection movie non si può evitare di partire da George A. Romero. È il 1973 e l’autore di Pittsburgh realizza The Crazies, da noi ribattezzato La città verrà distrutta all’alba, in cui narra di un misterioso virus che, diffusosi in una cittadina della Pennsylvania, trasforma la popolazione in un manipolo di psicopatici.

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La città verrà distrutta all’aba (1973), George A. Romero

Crazies, appunto. Il film si situa a metà strada, cronologicamente e concettualmente, tra La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) e Zombi (Dawn of the Dead, 1978) e, pur rimanendo un capitolo spesso dimenticato nel corpus romeriano, è comprensibilmente un passo importante per la definizione della poetica del regista. Ancora una volta il terrore è quello del “decontrollo” sociale, del sovvertimento dello status quo, ed è percepito principalmente da militari e funzionari di vario genere, che finiscono per essere i veri cattivi. Qui è a rivoltarsi è la Suburban America, trasformata dal virus in una falange di guerriglieri nichilisti e osteggiata dall’esercito ufficiale che, come accadrà ne Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985) non fa altro che peggiorare le cose. Gli infetti di Romero non sono poi molto diversi dai suoi zombi, con i quali condividono incazzatura di classe e asfissiante pessimismo, ma l’idea del virus che rende pazzi risulta evidentemente fruttuosa. In effetti, La città verrà distrutta all’alba sembra essere il referente più prossimo di Incubo sulla città contaminata (1980), fantasmagoria postapocalittica di Umberto Lenzi in cui gli infetti sono in realtà esseri umani sottoposti a radiazioni. I falsi zombi di Lenzi, scesi da un misterioso aereo, si dimostrano abili nell’uso di armi e, forse per la prima volta nella storia del genere, discreti corridori. Implicazioni ideologiche vaghe e confuse (militari ridicoli, radiazioni assassine) e approccio scanzonato e a tratti parodico caratterizzano anche Planet Terror (2007), quota del progetto Grindhouse affidata a Robert Rodriguez, che di La città verrà distrutta all’alba è una specie di remake sospeso tra omaggio cinefilo e remix postmoderno. Qui l’infezione ha effetti piuttosto disgustosi, con un gorgogliare di robaccia verde che ricorda alcune scene di Virus di Bruno Mattei (1980) il quale, nonostante il titolo, racconta di zombi propriamente detti), ma l’idea lenziana è rispettata con discreto scrupolo. Del classico romeriano La città verrà distrutta all’alba è invece già stato realizzato un remake, The Crazies, diretto da Breck Eisner e nelle sale americane dal febbraio 2010.

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Incubo sulla città contaminata (1980), Umberto Lenzi

All’altro estremo dello spettro dei film infetti, troviamo quegli (pseudo)zombi movie che tematizzano a livello estetico e di contenuto la malattia. Ovvero, non ne fanno solo un’alternativa più o meno originale alla risurrezione dei morti, ma ne ritraggono il decorso e la cura, che spesso finisce per essere un isolamento coatto a base di mascherine e teli di plastica (E.T. insegna). È il caso, l’abbiamo detto, di 28 giorni dopo e del suo seguito 28 settimane dopo (28 Weeks Later, Juan Fernando Fresnadillo, 2007). Entrambi i film sono caratterizzati da continui riferimenti iconografici alla pandemia. Nell’opera di Boyle, tutto nasce da un blitz animalista in un laboratorio e finisce con la segregazione dell’intera isola britannica dal mondo. Un enorme, desolato, reparto di quarantena. Nel seguito, in cui ogni porta è stagna e ogni stanza sigillata, l’ansia da contagio è un elemento centrale e l’area in cui si rifugia la popolazione sana (ovviamente sotto corte marziale) ha l’aspetto di una roccaforte pronta a cadere. In una delle sequenze più efficaci di [REC] (2007) di Paco Plaza e Jaume Balagueró, una squadra di teste di cuoio impacchetta un intero condominio con enormi teli di plastica. All’interno, si è scatenata un’epidemia che trasforma i malati in zombie famelici (c’è di mezzo anche un esorcismo, ma non è questo il luogo per addentrarsi nella sinossi) e la brillante soluzione proposta da un governo invisibile, che aleggia su un film programmaticamente claustrofobico, girato tra scale e ballatoi di un palazzo di Barcellona, è quella di chiudere tutti dentro e buttare via la chiave. Non sorprende che il remake americano del film porti il titolo di Quarantine (John Erick Dowdle, 2008)… Perché dunque ci sono tanti film che parlano di epidemie? Un anonimo utente di Yahoo Answers, tale Dr. T., suggerisce che, essendo in tanti a popolare la Terra, l’estinzione di alcuni è un incubo/sogno tollerabile. Catastrofismi a parte, sembra che l’idea di essere ridotti in massa al più orrendo dei comuni denominatori – la malattia, appunto – sia in grado di spaventare davvero.