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Kate

2021
REGIA:
Cedric Nicolas-Troyan
CAST:
Mary Elizabeth Winstead (Kate)
Miku Martineau (Ani)
Woody Harrelson (Varrick)

Il nostro giudizio

Kate è un film del 2021, diretto da Cedric Nicolas-Troyan.

Kate imbraccia il fucile, pronta a sparare. Siamo a Osaka, e l’obiettivo è un boss della yakuza, la mafia giapponese. Quando l’obiettivo si mostra, tuttavia, ha con sé la figlia. Sparare o non sparare? Questo è il dilemma, lo stesso che apre film come Mine (Fabio Guaglione e Fabio Resinaro) e American Sniper (Clint Eastwood), ma che qui viene risolto in pochi secondi. Kate spara. Basta una scena per mostrarci la freddezza di una protagonista spietata (una sempre meravigliosa Mary Elizabeth Winstead) e di un film che non perde tempo in sentimentalismi. Figlio di una ricca tradizione di film dalle protagoniste belle e letali (Da Nikita a Lucy), Kate, film per Netflix di Cedric Nicolas-Troyan, è la storia di una killer professionista che, a seguito del suo ultimo incarico, viene avvelenata in modo letale. Il suo ultimo giorno di vita sarà una corsa contro il tempo per arrivare al suo assassino e ottenere vendetta. “I have to finish something”. Entrare in questo film è facile: le atmosfere con cui gioca sono ricche e meravigliose, forse la cosa più bella di questo titolo. Ci muoviamo in un Giappone contemporaneo diviso tra la modernità e la tradizione, che varia tra le strade illuminate al neon di Blade Runner ai giardini zen e le case tradizionali di Kill Bill vol. 1, opera a cui Kate deve tanto. Quando si fermano le sparatorie e i personaggi prendono le katane, o quando Kate fa strage di yakuza tra pareti di carta e tatami, per un momento ci si sente a casa. Come vedere Beatrix Kiddo ancora una volta in azione. Il divario tra le due opere è immenso, ma per un attimo la sensazione è quella.

Dura solo un attimo però, perché se è facile entrare in quest’opera, più difficile è rimanerci: alcune inquadrature realizzate male interrompono l’illusione e tutto l’impianto scenico, per quanto meraviglioso, a volte finisce per risultare eccessivo e posticcio: basta poco perché le atmosfere di cui sopra esagerino e diventino un grosso giocattolone al neon infarcito di j-pop e di riferimenti anime, studiato per piacere agli occidentali che si nutrono di questa estetica. Parte della colpa va, inevitabilmente, alle carenze di scrittura. La storia non è terribile e fa il suo dovere nonostante l’assenza di guizzi, ma nel momento in cui abbandona l’azione per provare a dare delle motivazioni scade in terribili clichè. Un esempio tra tutti è il vecchio capo famiglia della yakuza che si lamenta dell’avidità dell’uomo bianco occidentale. Kate funziona quando rimane nel suo piccolo e fa quello che sa fare bene: mostrarci una donna con una condanna a morte sulle spalle che cerca di chiudere i conti. Condizione necessaria per farlo sarà, ovviamente, trovare redenzione, portando con sé e proteggendo la ragazza che ha lasciato orfana con il suo ultimo lavoro. Le scene di azione sono meravigliose, adrenaliniche ed esplicite, quasi al limite dello splatter, che portano Kate sempre più allo stremo, mentre gli unici momenti che davvero colpiscono nel segno a livello emotivo sono gli attimi di calma tra una sparatoria e l’altra, in cui Kate e Ani (la ragazza orfana) hanno il tempo di respirare. Quando si fermano e al posto di collaborare si prendono a male parole ci mostrano il loro lato più spontaneo, più umano.

È nell’azione che troviamo questo film, nelle ferite che si accumulano sulla protagonista, ma soprattutto nel suo corpo che cambia. Kate, anche se in maniera un po’ grossolana, parla di metamorfosi (lo grida in maniera esplicita a inizio film la proiezione su un grattacielo di Ken Kaneki, protagonista di Tokio Ghoul, opera che tratta molto questo tema). Più osserviamo il corpo di Kate decadere e andare in pezzi sotto l’effetto del veleno, più vediamo formarsi il suo personaggio, da vuoto strumento di morte a essere umano dotato di coscienza. Anche se sappiamo fin dall’inizio come andrà a finire, è bello poter vedere come ci arriva Kate, poter vedere come alla fine è più intera di quanto non fosse all’inizio. Ma soprattutto, perdonate il francesismo, è bello vederla spaccare un po’ di culi.