Featured Image

Halston

2021
REGIA:
Daniel Minahan
CAST:
Ewan McGregor (Halston)
Rebecca Dayan (Elsa Peretti)
David Pittu (Joe Eula)

Il nostro giudizio

Halston è una serie tv del 2021, creata da Sharr White.

L’ispirazione è l’elemento che ruota attorno al nome “Halston” nella nuova miniserie lanciata da Netflix il 14 maggio e prodotta dal-prolifico Ryan Murphy, in questa occasione in veste di sceneggiatore insieme con Ian Brennan, Sharr White, Ted Malawer, Tim Pinckney e Kristina Woo. Tutti gli episodi della serie sono diretti da Daniel Minahan. Protagonista indiscusso è Ewan McGregor, nei panni del brillante, avanguardista, ambizioso e visionario Roy Halston Frowick. Nel cast insieme a lui ci sono anche Krysta Rodriguez nel ruolo di Liza Minnelli e Rebecca Dayan in quello di Elsa Peretti. Gian Franco Rodriguez è Victor, Vera Farmiga è Adele, Bill Pullman è David Mahoney e Rory Culkin è Joel Schumacher. Tocco di classe, tra un eccesso di volgarità e l’altro, è offerto dalla presenza di due Signore note e care al piccolo schermo: Mary Beth Peil nei panni di Marta Graham e di Kelly Bishop nel ruolo di Eleanor Lambert. Ma, chi era Roy Halston? Di umili origini, raggiunse la fama mondiale nel 1961 quando Jacqueline Kennedy, durante l’inaugurazione presidenziale del marito, indossò il suo iconico cappellino a tamburello, azzurro pastello. Quando “le donne hanno smesso di indossare i cappelli” Halston ha dovuto reinventarsi, cedendo di tanto in tanto a qualche compromesso legato non solo all’immagine, ma anche al gioco commerciale.  Da quel momento il suo marchio divenne un must grazie a Liza Minelli, sua cara amica, di cui ne era stilista. Halston, tra gli anni ‘60 e ‘70 ha rappresentato un nome cardine per il jet set occidentale. Apprezzabile il lavoro dell’intero cast, forse a tratti compromesso, soprattutto nel caso di alcuni personaggi secondari (e non solo), dal doppiaggio italiano. Per chi non si fosse ancora imbattuto in questa nuova mini serie, il consiglio è di godersela in lingua originale.

Godibilissimo il notoriamente versatile, ma questa volta anche più maturo, Ewan McGregor nei panni di un personaggio volubile e incompreso, molto distante da quelli interpretati nel corso della sua ormai pluriennale carriera. Il tema dello show si palesa fin dalla prima scena e consente al pubblico di vaticinare dal principio che non si tratterà di una serie tv innovativa e originale, ma di una essenziale ricostruzione degli eventi, di una storia raccontata così com’è stata. E cosa ci garantisce la riproduzione cinematografica della storia di uno stilista omosessuale ricco e di successo? Un mix di flashback sulla sua vita passata che si alternano a scene di sesso e droga, di sfilate di moda, di sesso e droga, e poi ancora droga. L’originalità si sacrifica in favore di una scenografica icastica ed evocativa dello spirito creativo del protagonista, il modo in cui osserva ciò che gli ruota accanto per trarne ispirazione, la passione per le candidate orchidee, le sigarette sfiammate in attesa della comparsa della sua Calliope e i fluttuanti abiti di seta colorata che, accarezzando l’aria e le braccia di anonime modelle, sembrano ricostruire il momento esatto in cui sono stati plasmati nella mente del loro pensatore.  Filo rosso dei 5 episodi di Halston: la totale assenza di empatia, non solo nei confronti del protagonista, ma anche degli altri personaggi. Ryan Murphy non ci dice nulla di più su Halston che non avremmo potuto apprendere su wikipedia o intuire da storie già note di altri personaggi del suo rango; un limite che ultimamente sembra costituire una costante del suo lavoro. Nella serie antologia American Crime Story, infatti, sia sul  caso di O.J. Simpson che dell’assassinio di Gianni Versace, non ci è dato conoscere qualcosa in più rispetto a quanto non fosse già noto o immaginabile, soprattutto per quanto riguarda la seconda stagione: un occhio di bue segue, riavvolgendole, le vicende dell’assassino del celebre stilista calabrese; al termine dei 9 episodi conosciamo ciò che ha fatto e come, ma nessun perché, nessuna indagine psicologica, nessun delinearsi di un profilo. Tutto è lasciato alla mercé della libera interpretazione dello spettatore.

E allora, forse, aldilà dei limiti, per scagionarlo dall’accusa di essere stato superficiale e approssimativo, si potrebbe immaginare che Murphy non abbia chiesto a Ewan di interpretare un personaggio, ma un brand. Durante la mini serie Halston si trasforma, ex abrupto, in un’altra persona, tanto da apparire quasi incoerente con se stesso. Ciò che è plausibile è che ad un certo punto della sua vita abbia iniziato ad interpretare il ruolo che la società si aspettava avrebbe ricoperto. L’attenzione è posta esclusivamente sul nome, Halston, che torna in modo ossessivo e quasi ridondante, echeggiando tra i gli uomini d’affari, le donne del jet set e nella mente ambiziosa e autocelebrativa dello stesso protagonista, come una keyword del XXI sec. che influenza i numeri delle utenze del mondo del web. Murphy fa questo: sposta sapientemente l’attenzione dall’uomo al brand. Un brand alle cui spalle vi è un uomo, umano, con i suoi limiti, i suoi demoni, le sue fragilità. Roy, alla fine, è stato definito dal nome che aveva scelto di portare; come se il brand, la risonanza, il nome Halston avesse una sua anima autonoma e decisiva.  L’ossessione per il suo nome l’ha reso vittima di ciò che per lui quel nome rappresentava, trasformandolo in ciò che il modo in cui aveva da sempre immaginato quel nome ha voluto che diventasse. L’abito più importante e pesante che abbia mai creato è stato Halston, fino a quando indossarlo è diventato come per Frodo l’anello dei Potere, un fardello che lo ha corrotto. Roy, senza rendersene conto,  è stato per due decenni il dipinto di Halston nascosto in cantina, che marciva, invecchiava e si corrompeva al suo posto. E proprio come Dorian Gray ha liberato la sua anima pugnalando il suo ritratto, così Roy rinunciando ad “Halston” si è riconciliato con se stesso.