La cage aux folles

Quando il rapporto erotico si trasforma in una trappola
Featured Image

Il collezionista, di William Wyler del 1965, The Wild Pussycat, del regista greco Dimis Dadiras, del 1972, poi La trappola, di Pierre Granier Deferre, del 1975. Quindi Emanuelle e Françoise le sorelline di Joe D’Amato, sempre del 1975, La gabbia di Giuseppe Patroni Griffi, nel 1985 e Il miele del diavolo di Lucio Fulci, del 1986. Fino a The Keeper(2004), di Paul Lynch. Obtorto collo – ma nemmeno troppo –, ci si potrebbe inserire anche Blue movie di Alberto Cavallone (1978) e Misery di Rob Reiner (1991). Ciò che unisce, nel tempo, la serie di pellicole citate è la situazione. Detto stringatamente: in tutti questi film si racconta di vittime (quasi sempre uomini) sequestrate e tenute in condizione di cattività – ne discendono suggestioni sadomaso, a partire dall’uso di manette, lacci o catene – da loro ex partner o spasimanti; “oggetti del desiderio” ridotti, quindi, a cosa da possedere o da usare a proprio piacimento – di qui il feticismo. Le matrici archetipe, se vogliamo ragionare per massimi sistemi, possono essere ravvisabili nella figura della Circe omerica che tiene prigionieri Ulisse e i suoi uomini. Ma non c’è persona che non abbia sognato almeno una volta di rapire e tenere solo per sé l’amante dei suoi sogni, come dice Terence Stamp nel film di Wyler – aggiungendo: «Solo che io l’ho fatto davvero…».

Proprio Wyler, che ha aperto il flusso cinematografico del motivo, aveva una fonte letteraria più prossima di Omero, cioé il racconto dello scrittore inglese John Fowles, The Collector, pubblicato nel 1963. Granier-Deferre, dal canto suo, adattò per lo schermo una famosa pièce teatrale di Jacques Jacquine, dal titolo La cage, che – nessuno lo ha mai notato – dovette ispirare anche la tormentata sceneggiatura di La gabbia di Giuseppe Patroni Griffi, scritta da Lucio Fulci che poi rifece praticamente lo stesso film col titolo cambiato Il miele del diavolo. Di Misery da King non c’è bisogno di dire. Storia a sé fanno invece la pellicola di Dadiras (il cui titolo originale greco suona come La calda vendetta del sesso) e il rifacimento italiano girato da Mattei/Massaccesi, che sono le punte più exploitation, perverse ed estreme del microgenere: naturalmente dopo le degradazioni che Alberto Cavallone inflisse al “corpo vile” di Dirce Funari, relegata dentro una prigione di vetro, tra lo sterco e l’urina, nel ferocissimo Blue movie.

dentro 1

Il collezionista

I film di Wyler e Granier Deferre rischiano di apparire oggi i meno noti di questo lignaggio, ma sono i migliori. Se non altro, quelli in cui l’amore “ingabbiato” non è fine ma puro mezzo della narrazione. Il collezionista (The Collector) – in cui un timido collezionista di farfalle (Terence Stamp) concerta e attua il sequestro di una studentessa d’arte (Samantha Eggar), di cui è innamorato: finirà che lei muore di stenti e lui passerà ad altre prede – parla di inadeguatezza e di incomunicabilità e, a un livello ancora più sotterraneo, dello scontro tra classi sociali e sistemi culturali diversi. In La trappola (La cage) Lino Ventura è Julien, un costruttore che la ex moglie Helen (Ingrid Thulin) attira nella sua villa fuori mano e, tramite una botola, fa finire in una cantina adibita a carcere. Scopo: costringere l’uomo a riflettere sulle ragioni che hanno determinato la fine del loro rapporto. Il dramma si allaccia alla commedia, in un clima da fin du monde, come nell’archetipo teatrale di Jacquine, fino a un epilogo grottesco in cui Julien e Helen – dopo che lui era riuscito a liberarsi – restano sepolti nella cantina da un’esplosione di gas, reagendo all’imprevedibilità del destino con una gargantuesca risata. In entrambe le pellicole – giochi al massacro orchestrati da regie quadrate (Wyler) e taglienti come rasoi (Deferre) dentro piccoli universi, raccolti ed esemplari: perché la visione deve restringersi per allargarsi – gli interpreti sono pilastri essenziali del sistema: tant’è che Stamp e la Eggar guadagnarono la Palma d’oro a Cannes. L’eros “deviante” nel Collezionista è la castità di Freddie, in quanto maschera l’impulso necrofilo soggiacente alla sua passione per le farfalle, cui Miranda è parificata, come bellezza da collezionare e possedere solo per mezzo della morte; mentre nel “nero” di Granier Deferre sono le meticolose attenzioni della Thulin per Ventura intrappolato, cominciando dal cibo, a nascondere sottili valenze erotiche.

Untitled-4

La cage

La gabbia di Patroni Griffi è La cage volta in chiave sadomaso spinta e ampliata a tre personaggi: lui (Tony Musante), lei (Laura Antonelli), amanti per un’estate, tanti anni prima, e la figlia di lei (Blanca Marsillach). Un nuovo incontro casuale, a Parigi, e l’uomo finisce incatenato al letto – metaforicamente e poi in senso reale – dell’Antonelli, che stavolta non intende farselo scappare e che coinvolge la figlia nella sua fissa, finché anche lei non si innamora del prigioniero. Nonostante la Antonelli e il suo alter-ego da giovane, Cristina Marsillach (sorella di Blanca), difendano a dovere il fortino della propria sensualità – i flashback retrospettivi, con Musante e la sua giovane vittima impegnati in spericolate pratiche bondage sono le cose migliori del film –, La gabbia, dal punto di vista erotico, non esiste; raggelante e artefatto, anche quando dovrebbe, nelle intenzioni, risultare outré, tra alluci succhiati e caviale spalmato sulle nudità – leggermente rivoltanti – del protagonista-olocausto. Per cui, le truculenze, tipo il colpo di taglierino in pancia con successiva, dettagliata, suturazione, non sono che banali scorciatoie per cercare di arrivare a thanatos dopo che si è fallito l’eros. Da quel che si sa, Lucio Fulci riscrisse completamente il soggetto originario del film, che apparteneva a Francesco Barilli, si intitolava L’occhio e avrebbe dovuto, a un certo punto, diventare un film prodotto da Gigi Borghese e diretto da Enzo G. Castellari, con Barbara Bouchet e Miles O’Keeffe protagonisti.

miele del diavolo

Il miele del diavolo

Dalla Gabbia a Il miele del diavolo si passa praticamente senza soluzione di continuità: stessa interprete, Blanca Marsillach, stessa protervia nel ricorso al sadomasochismo (che se là da lusus erotico diventava strumento di vendetta, stavolta si trasforma da condanna a piacere), stessa torva cimiterialità dell’insieme; che con Lucio Fulci al timone non può che spingersi – se mai sia possibile, verso posizioni ancora più oltranziste di quanto avesse osato fare l’estetizzante Patroni Griffi. Anche nel Miele del diavolo, l’erotismo è il convitato di pietra, ma a discolpa del film va detto che né a Fulci né al suo pubblico interessava alcunché spigolare eccitazione nel racconto di una sciroccata (la Marsillach) che sequestra il chirurgo (Brett Halsey) che ritiene responsabile della morte del suo fidanzato (Stefano Madia), per sottoporlo a sevizie di ogni genere – e alla fine, prevedibilmente, finirci a fare l’amore.

Diventa suggestivo muoversi a granchio – vista l’analogia del motivo portante: rapimento e torture sessuali a scopo di vendetta – da Fulci a Emanuelle & Françoise – le sorelline e da esso al suo archetipo greco del 1969. Da The Wild Pussycat, Mattei/Massaccesi non si limitarono a prendere spunto, ma girarono un remake fatto e finito: con Luigi Montefiori al posto di Kostas Prekas e Rosemarie Lindt che come Gizela Dalli nell’originale gliela faceva pagare molto cara per avere ingannato e spinto al suicidio sua sorella. Dadiras – pur non andandoci leggero, se è vero che il suo film venne considerato ineditabile in Italia, in quanto ai limiti della pornografia, e pur spingendo la furia nemesiaca della protagonista fino al punto da castrare la sua vittima – non arrivava ad apparecchiare le mense cannibaliche che Joe D’Amato imbandì invece per Emanuelle & Françoise, iniziando così a sintetizzare la sua personale filosofia combinatoria di eros e orrore.

dentro

Emanuelle e Francoise: le sorelline

Le parole che vale la pena spendere per il più recente The Keeper di Paul Lynch, sono esclusivamente a favore della bellezza di Asia Argento, una ballerina di lap dance che per tutti i suoi peccati finisce nel raggio d’azione dello sceriffo Dennis Hopper, il quale si è messo in testa di redimerla tenendola chiusa in una cella costruita in cantina. L’azione psicologica dei classici, Lynch non sa nemmeno dove stia di casa, e men che meno ha senso vedere un film del genere sperando di riportarne chissà quale trofeo di perversione, perché Asia, in catene, nemmeno si spoglia e Hopper appare plumbeo, “bollito” e inerte a un livello molto maggiore rispetto ai suoi deprimenti standard attuali.