Massimo Dallamano – parte 2

L'erotismo nel cinema erotico del regista
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Enigma rosso è ritenuto completare la trilogia “lolitesca” ma solo a livello di scrittura, perché il film lo diresse poi, come noto, Alberto Negrin. Si trattava di un remake dichiaratissimo di Solange che la IIF di Lucisano insisteva per fare da anni e che alla fine concretizzò quando Dallamano era già scomparso; ma il risultato – peraltro buono, con cupezza e morbosità, stavolta sì, poco comuni –  non è certo utile per dare la tara a quelle che potevano essere le ossessioni erotiche di chi lo ha scritto – una pletora di sceneggiatori:  oltre a Dallamano, Coscia, Ferrini, Negrin e Ubezio, più Peter Berling accreditato per la quota tedesca di coproduzione. Insomma, il più voyeuristico e spinto dei film del trittico, è l’unico che Dallamano non ha diretto. Ci siamo così spostati, temporalmente, nella zona di La fine dell’innocenza, che se il tema dato deve essere il rapporto che il regista ha avuto con la rappresentazione del sesso quale rimbalzo di passioni personali, è già un campo di studio più agevole dei gialli. Perché qui siamo di fronte a un film erotico, dichiaratamente tale, altrettanto quanto lo era stato Venere in pelliccia poco meno di una decina di anni prima. Due film erotici, alla stretta finale, Dallamano ha diretto, che sono quelli appena citati. La fine dell’innocenza con il lato esotico che lo motiva alla base, insieme al personaggio di Annie Belle: un “pacchetto” (simpatica biondina ossigenata ninfomane su sfondo di paesaggi orientali) che in quel momento si acquistava tutto insieme ed era di per sé un piccolo filone, generatosi dopo Emmanuelle di Jaeckin e allevato con cure particolarmente amorevoli dal produttore Harry Allan Tower, personaggio curioso e discusso, che in esso vedeva unite le proprie inclinazioni per i Paesi dell’Est asiatico e per le fanciulle in fiore.

La Belle, protetta di Tower, deliziosa, allora ventenne, non fa nulla che non avesse fatto (Laure) o avrebbe fatto (Velluto nero, La notte dell’alta marea) in altri film simili: la vediamo farsi soddisfare oralmente dal vecchio Charles Fawcett al suono di una radiolina, perdere la verginità durante un agguato notturno, gustare i piaceri saffici con Felicity Devonshire coricandosi anche con il di lei marito Ciro Ippolito e con una serie di personaggi pittoreschi tra i quali spicca Al Cliver, che, sfidando il blasfemo, la possiede all’impiedi contro la parete di un tempio buddista. Qui, la carne al fuoco c’è, ci sono i fatti: Annie Belle e Felicity Devonshire sono sempre o quasi à poil e un amplesso in moto ha dei dettagli abbastanza birichini. Ma non c’è praticamente scena erotica, non c’è congresso carnale che Dallamano non si diverta a sabotare con l’intrusione di “disturbi” comici che stornano l’attenzione e sdrammatizzano il pathos. È evidentissimo, trattasi di una scelta. Qualsiasi cosa possa significare, è un’opzione precisa, meditata, introdotta fin dall’inizio quando lo spogliarello in macchina di Annie viene spiato dal ciclista Enrico Beruschi, con un cortocircuito che in fondo esprime piuttosto bene l’essenza di tutto quanto il film, tra la situazione piccante-grottesca e la sensualità suggerita dal tema sonoro portante (genialmente intitolato Annie Belle) cantato da Linda Lee/ Rossana Barbieri. Quindi, come bottino di morbosità e di compiacimenti guardoni anche dalla Fine dell’innocenza c’è da portare a casa ben poco. Qualsiasi Emanuelle di Massaccesi contiene molto di più in termini di osée. Eppure, anche questo va notato e riflettuto, Dallamano riesce a lasciare nello spettatore l’impressione di avergli fatto vedere chissà cosa, per una misteriosa formula alchemica che è in fondo la ragione ultima per cui anche i gialli sopravvivono nel ricordo come molto più forti, in termini erotici, di quanto non lo siano in realtà.

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Tutt’altra faccenda era invece quella di Venere in pelliccia, che nessuno in Italia aveva mai visto per come era stato diretto e montato in origine, fino a pochi anni fa quando ne è stato pubblicato un dvd finalmente integrale. La panoplia dell’erotismo, in tutte le sue sfumature e sfaccettature, non avrebbe potuto essere messa in mostra in modo più completo ed esplicito di come fece Dallamano in quel 1969 che aveva certamente spostato in avanti il limite del mostrabile nel cinema, per usare una frase di rito. Ma non così avanti. Qualunque considerazione si possa fare sulla bellezza del film, persino sontuoso nell’armonizzare la potenza scabrosa delle situazioni con una forma allo stesso tempo composta e fiammeggiante, è giocoforza banale. Una sequenza come quella del rapporto lesbico tra le due cameriere, con il controluce e la dislocazione della macchina da presa che, all’acme del rapporto, svela da sotto il letto la meccanica posturale del cunnilungus, sono piacere della tecnica e tecnica del piacere, erotologia. Dallamano ne dà prova a più riprese nel film, seguendo le magnifiche sorti di Wanda/Laura Antonelli che viene scontatamente da dire non fu mai contornata da un maggiore desiderio nell’occhio di chi la riprendeva e in quello di chi la guarda sullo schermo – eppure, dicono le cronache, le attenzioni maggiori del regista andavano a Renate Kashe, la camerierina con i capelli rossi, con la quale pare che Dallamano avesse una liaison dopo l’incontro in La morte non ha sesso.

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Niente nella filmografia del regista è come Venere in pelliccia, ma ciò che più gli si approssima nelle fragranze sensuali è senza dubbio Il Dio chiamato Dorian, girato per il già ricordato Allan Tower. Ad ascoltare i racconti di chi dice che nel film Helmut Berger fosse una sorta di alter-ego di Dallamano, che vi si rispecchiava rispetto a una sessualità aperta a 360 gradi, viene da crederci vedendo ciò che è stato messo sullo schermo. Berger sta perfettamente all’Antonelli di Venere in pelliccia, e tragitta indenne attraverso ogni possibile esperienza erotica come una sorta di eroe iperuranio e pansessuale. Il Dorian Gray ideale in un film che ha scontato probabilmente il fatto di somigliare troppo a un Hammer, anche se il linguaggio è molto  italiano (a non volere dire altro, la lunghissima e complessa soggettiva con le mani di Dorian lorde di sangue). Dallamano ha l’aria di citarsi anche dal precedente film nell’amplesso di Helmut con Margaret Lee che finisce con una cintura agitata a mo’ di frusta. Ma qui ad essere davvero pregnanti sono le tensioni omosex, benché quello che si mostra non possa restare che a livello di citazione, nell’abbordaggio del nero – un giovane Bobby Rhodes – al porto e nell’avance sotto la doccia da parte di Herbert Lom. Domina, nel Dio chiamato Dorian, un’atmosfera acre, morbida e morbosa che sarebbe intrigante capire se e quanto si concretizzasse in scene alternative più strong rispetto a quelle che conosciamo dalla versione italiana e da quella internazionale. L’eros che ne esce è qualcosa di labirintico, infinito, da perdercisi, e finanche spaventoso, più ancora che in Venere in pelliccia in cui la dirompenza è minore in quanto tutto è più mostrato. Che i film vadano comunque considerati un dittico, soprattutto come valore intrinseco, ci sembra del tutto evidente.

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Mentre La morte non ha sesso mantiene esattamente quel che il titolo promette, disancorando da un giallo-nero costruito però al di fuori delle consuete linee di genere, ogni aspetto sexy (peccato, perché Luciana Paluzzi si porge con una grande offerta fetish, tra calze e vestiti d’epoca) ad eccezione di un bel bacio alla francese filmato virtuosisticamente sul ciglio di una scarpata tra la protagonista e Robert Hoffman, resta da tirare la somma erotica della commedia Innocenza e turbamento, cioè del Dallamano che, con sceneggiatura co-firmata con Gianfranco Clerici, si mette dichiaratamente sulle orme di Malizia di Samperi, usando Edwige Fenech come la Antonelli e come alias di Alessandro Momo introducendo Roberto Cenci, svezzato a questo tipo di ruoli soprattutto grazie ai film con Carmen Villani. La voce che si raccoglie è che l’interesse di Dallamano, durante le riprese, andasse soprattutto a lui, ragazzino longilineo ed efebico che, nella storia, dai giorni del seminario scanditi dall’autoerotismo e dai toccamenti coi compagni, si trova catapultato nella magione avita verso le grazie della matrigna Edwige Fenech. La quale sconterà pure il fatto di spogliarsi parcamente e di essere doppiata dalla voce che poco ci azzecca di Rita Savagnone, ma riesce ad apparire, più che sensuale torbida, come in poche altre commedie. Il film è, a ben vedere, due film: e il nucleo erotico viene per ultimo, verso la fine, dopo la commedia e dopo i lazzi che qualcuno ha definito felliniani della tentata iniziazione al sesso del ragazzino da parte di una specie di Dea Cibele incarnata da Anna Maria Pescatori.

Dallamano è teso al rito culminante dell’amplesso tra la Fenech e Cenci: il tono, a quel punto, si fa improvvisamente serio e anche se la macchina da presa non va a frugare più di tanto quel che succede nel viluppo  tra i due amanti, la sequenza ha un impatto e trasmette un clima di acre erotismo, davvero notevoli. Dallamano, alla stretta finale, ci sfugge, è inafferrabile. Esattamente come il suo cinema, che lo riflette, credo, in maniera molto precisa. Anche il suo cinema erotico che è un’astrazione creata per amore di analisi e che non risulta facilmente contornabile per temi, per ossessioni o per modo di trattare gli uni e le altre, ondivago qual è, aperto agli scarti, all’aprosdoketon – capace di osare moltissimo ma anche di trattenersi in un coitus interruptus o di esplodere in una risata sardonica – e composto di pellicole che non si potrebbero immaginare più distanti, Venere in pelliccia e Cosa avete fatto a Solange, Il dio chiamato Dorian e Innocenza e turbamento. Nelle più profonde vene dei quali, tuttavia, avvertiamo che scorre un sangue simile.