Due true crime doc: Marco Mariolini e Maurizio Minghella

Il cacciatore di anoressiche e il Travolta killer della Valpolcevera
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Marco Mariolini. A dirlo così, suona soltanto come un nome e un cognome, un po’ buffo, terminato da quell’ -ini, ipocoristoco, vezzeggiativo. La storia che ha dietro questo signore, però, non è per nulla buffa. Se diciamo “il cacciatore di anoressiche”, citando il titolo di un libro, romanzo, che lo stesso Mariolini scrisse, nel 1997, per Edicom, già i ricordi un po’ si chiarificano e si specificano. Nella memoria di molti riecheggiano quella definizione e, ancor più, la traduzione in immagini che di quel concetto, di quel libro, di quel personaggio, di quella vicenda, fece Matteo Garrone nel magnifico Primo amore, con il povero Vitaliano Trevisan protagonista e con Michela Cescon. Mariolini, l’uomo ossessionato dalla magrezza, dal grasso quale nemico e quale Satana; dalla macies, avrebbero detto i latini, come unico viatico alla bellezza. O meglio, all’idea platonica stessa della venustà femminile. Un true crime della Videa Next Station, Il cacciatore di anoressiche, appunto, scritto da Marina Loi e Flavia Triggiani, già artefici di ottimi documentario su Lady Gucci e sulla Banda della Uno Bianca, a cura di Giulia Cerulli e con la regia di Ram Pace, ora ci guida ai misteri, meandrici, affascinanti, rabbrividenti anche, della personalità del Mariolini Marco, nelle cui sinapsi imperava l’ideale dello scheletrismo, il dover essere, cioè, la donna, pelle e ossa, letteralmente, onde ispirare il desiderio e l’amore – usiamolo pure, il termine. In  pratica e in soldoni,  questo signore nativo di Pisogne, in provincia di Brescia, andava vagheggiando l’archetipo di una femmina della quale il suo occhio potesse apprezzare distintamente vene e arterie, affioranti da un corpo, in qualche perverso modo, “smaterializzato”, etereo, sublimato, astratto. Voleva “vedere la colonna vertebrale attraverso il ventre”: citazione testuale, icastica, da una sua conversazione intercettata che ascoltiamo nel documentario. Espresso ancora più in soldoni, significava che il Mariolini imponeva a coloro alle quali si accompagnava una dieta ascetica: pane – forse nemmeno quello – e aria. “Meno pesi e più mi piaci. Meno sei, più sei”. Trovò chi lo assecondava. Perché c’è sempre qualcuno che, all’appello della follia, risponde “presente!”. Fino a un certo punto, però. Oltre il quale punto, la parola passò alle violenza, alle armi. Nel caso di specie, a un coltellaccio, che Mariolini affondò per ben 22 volte nel corpo di Monica Calò, l’ultima direttamente nel cuore, sulle prode del Lago maggiore, sotto il solleone del 14 luglio 1998. Viene intervistata una testimone diretta dell’omicidio, che oggi, ad ogni ricorrenza dell’omicidio, va a gettare una rosa rossa in mare, là dove la Calò rese l’anima a Dio.

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Mariolini oggi

Il true crime Il cacciatore di anoressiche (su Discovery + e il prossimo 29 gennaio in chiaro su 9, alle 21,25) è avvincente anche e soprattutto nella misura in cui insiste sull’interrogativo di base: Mariolini ci faceva o ci era? Ci fa o ci è? Tratta(va)si davvero di uno squilibrato, anoressofilo – solo caso al mondo, negli annali della psichiatria – che di se stesso vezzeggiava tale immagine “unica”, distinta, superominista quasi? Oppure, come conclusero le perizie psichiatriche al processo, risoltosi con una condanna a trent’anni di carcere, Mariolini era, in sostanza, di base, soltanto un uomo ontologicamente cattivo, signore e padrone delle proprie scelte, compresa quella omicidiaria ai danni della povera Calò, la quale, capita l’antifona, disse basta, sottraendosi al progressivo assottigliarsi della carne, della materia, andando così incontro, per altro tramite, alla propria morte? L’enigma già si compendiava nel look con il quale l’anoressofilo si presentò a Franca Leosini che si era portata a intervistarlo in carcere per una delle sue Storie  maledette: metà del volto e del cranio barbato e chiomato, l’altra metà completamente rasata. Una foggia felliniana, non ci si decideva se più comica o inquietante. Oggi, vediamo nel nuovo documentario la criminologa Cristina Brondoni tentare di approcciare Mariolini nel reclusorio psichiatrico dove ancora è ristretto, alla caccia di un commento, di una parola finale, di sintesi, dell’interessato, a bocce ormai ferme. Ma il cacciatore di anoressiche, ora del tutto glabro, i lineamenti affilati, spigolosi, anoressici a sua volta, è laconico, tace o quasi, sembra fissare il nulla e dice che quello è un libro ormai sfogliato, terminato, è storia che fu. E viene inevitabilmente da pensare alla frase della Turandot: “il mio segreto è chiuso in me…”.

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Maurizio Minghella

Flavia Triggiani e Marina Loi hanno scritto e anche firmato la regia, insieme ad Alessandro Galluzzi, di un altro notevole true crime, Maurizio Minghella – Il predatore (prodotto da Verve Media Company, lo trovate su Discovery +).  Apparentemente ci si muove in un diverso ambito delinquenziale, perché Minghella è stato un serial kiler che, al computo finale, nel proprio carniere omicida assommò, tra Genova e il Piemonte, ben undici vittime, tutte donne, e con modalità esecutive tra le più efferate: strangolamenti, dopo sevizie e torture, nonché abusi sessuali con una spiccata predilezione per le pratiche sodomitiche (alcune delle vittime subirono inserzioni di materiale eterogeneo nelle parti anali). Quindi, una grande crudezza esecutiva, fenomenologica. Ma Minghella, in qualche modo, come Mariolini, gravitava psicologicamente all’intersezione tra una personalità patologica e una natura, ontologicamente, malvagia, alla quale procurare dolore e infliggere strazio alle proprie vittima restituiva, solo e soltanto, piacere. L’antropologia di Minghella è, infatti, la parte più interessante che emerge dal documentario: un individuo ai limiti della subnormalità, con un quoziente intellettivo minimo, che sulla schiena di una delle sue povere vittime disegnò con un pennarello una rivendicazione terroristica farlocca e sgrammaticata (era il periodo in cui le BR sequestrarono Moro, 1978). E che tuttavia riuscì a fregare tutti: incarcerato per i primi omicidi commessi, poi apparentemente redentosi, con la benedizione di Don Andrea  Gallo, quindi di nuovo pluriomicida, alla faccia dei QI ottimi massimi. Minghella quale dimostrazione, in sintesi, che un piccolo Travolta del Valpolcevera, (lo soprannominarono così per la sua abilità danzereccia) poté tenere in scacco gli inquirenti per tanti anni, prima che le prove al DNA riuscissero a incastrarlo e a inchiodarlo alle proprie responsabilità. Maurizio Minghella – Il predatore è un documentario appassionante quanto il migliore dei thriller di fiction attualmente in circolazione e riconferma ciò che da un po’ di tempo andiamo sostenendo, cioè che questo tipo di produzioni sono il vero futuro dell’entertainment televisivo, la nuova via verso il “genere”: che, almeno in Italia,  altrove drammaticamente latita.

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Marina Loi e Flavia Triggiani