Sulle tracce dell’assassino

Il caso Yara Gambirasio
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Sarà un caso, benché nell’universo il concetto di caso non abbia ragione di esistere, ma la docu-serie in due parti Sulle tracce dell’assassino, che ricostruisce l’allucinante vicenda di Yara Gambirasio, viene oggi trasmessa nello stesso identico periodo in cui, il tardo pomeriggio di dodici anni fa, il 26 novembre del 2010, la tredicenne bergamasca si involò nel Nulla durante il tragitto di settecento metri che divideva la palestra presso la quale si allenava e la propria abitazione, a Brembate. Strano periodo, la fine di novembre, e lo sa bene chi vive quassù: è il momento più triste e inutile dell’anno, il cielo ha una luce senza luce e la sera è ancora peggio. Il dilucolo, che fu poi il momento nel quale la giovane sparì, manifesta la natura infida e vischiosa di una trappola, a cui non si può sfuggire. Yara ha nel proprio nome, un po’ come la Turandot, il primo grande mistero, tra i misteri che se la sono ingoiata: potrebbe trattarsi di un nome arabo, che vuol significare “amico”, “aiutante”. Potrebbe essere, anche, un nome in uso presso i Tupi del Brasile, per i quali Iara è uno spirito del fiume femminile che attira gli uomini in acqua per annegarli (una variante della Lorelei e della sirena)  e che significa “signora dell’acqua”. Yara era una bambina, più che una ragazzina, come testimoniano gli appunti del suo diario che fissavano idee semplici, infantili: “la lezione di geografia da studiare bene”, le prove di ginnastica artistica in vista di una importante gara nazionale. Niente fidanzatini, niente idee strambe. Appunto, una persona semplice, tutt’altro dallo spirito del fiume divoratrice di maschi. I nomi, per una volta, non furono conseguenza delle cose. Yara, quella sera infame, venne addotta, non dagli extraterrestri, ma da un’ombra terrestre che quasi certamente vedeva in lei qualcosa di ben diverso dalla bimbetta che in tutte le immagini superstiti sorride con l’apparecchio per i denti e che, sola, camminava dentro scarpette da ginnastica foderate di pelo, allora di moda tra i coetanei – dettaglio agghiacciante tra gli agghiaccianti, tra quanti emersero al momento del ritrovamento del suo corpicino e delle sue spoglie terrene, diversi mesi dopo, in un campaccio infestato dalla vegetazione spinosa e dalla fauna saprofita. A un certo punto della serie, la testimonianza del giornalista Luca Telese, enfatizza i caratteri quasi cinematografici del ritrovamento del cadavere: un tale che stava giocando con un aereo radiocomandato, seguendo il planare del modellino, arrivò ai resti semi-decomposti della piccola vittima, occultati tra le sterpaglie e i rovi. Era lì da chissà quanto tempo, forse fin da subito, ma nessuna delle ricerche che pure erano state condotte a tappeto, a partire dal momento della sparizione di Yara, l’aveva individuata. Un po’ come quella lettera rubata di Poe, che è sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno, forse proprio per questo, vede.

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Poi a distanza di anni, grazie alle investigazioni, fantascientifiche, che chiamavano in causa il DNA sedimentante sui resti della vittima, salta fuori il lupo nero di questa orrenda favola, nella persona di Bossetti Massimo, un muratore all’apparenza irreprensibile, marito e padre modello (foto con cane e gatto sul divano buono di casa), nel cui sguardo, tuttavia, e nel cui sembiante, Lombroso o il Lavater avrebbero individuato una fisiognomica perlomeno sospetta. L’Italia si spaccò tra chi credeva che l’uomo col pizzetto biondo e le iridi mezze eclissate sotto le palpebre (segno sempre sinistro) avesse aggredito sessualmente la Yara e poi, a fronte del rifiuto, l’avesse lasciata morire di stenti e di freddo, ferita e contusa, nel campo infernale; e chi invece riteneva che quell’angelo di uomo non potesse essere contiguo a un demonio. Totale: Bossetti sta da allora marcendo in carcere fino alla fine dei suoi giorni, nonostante i suoi Perry Mason continuino a cercare appigli per strapparlo ai ceppi. Invano. Sulle tracce dell’assassino (2X70) è una docuserie originale prodotta da Verve Media Company per Warner Bros. Discovery, scritta da Marina Loi e Flavia Triggiani, editor Emanuele Baldestein e Roberto My, per la regia di Alessandro Galluzzi, Marina Loi e Flavia Triggiani, visibile al canale 9 del Digitale Terrestre, Sky Canale 145 e Tivùsat Canale 9.  Flavia Triggiani e Marina Loi lavorano insieme da più di 10 anni come autrici di format e di programmi, registe, capo progetto, sceneggiatrici, producer. Dopo aver scritto Lady Gucci. La storia di Patrizia Reggiani, presente, a livello mondiale, sulla piattaforma di Discovery, nel 2021 firmano la prima regia di due documentari di cui sono anche autrici: La vera storia della Uno bianca, docu-serie in due puntate per Rai Documentari, in onda su Rai 2 e Maurizio Minghella. Il Predatore per Discovery. La ricostruzione del caso di Yara è assai più appassionante e coinvolgente nella chiave di lettura da inchiesta, serrata, offertaci dalla Triggiani e dalla Loi, di quanto non fosse stato nella fiction, soffocata dalla retorica, che Marco Tullio Giordana edificò lo scorso anno intorno ai tristi accadimenti di Brembate. A riconferma che una realtà dai tratti romanzeschi non ha bisogno di altra esegesi che esuli dalla forza dei fatti stessi. Basta saperli raccontare. Che non è facile.

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Marina Loi e Flavia Triggiani (foto Sibilla Mercuri)

Marina Loi ci spiega perché il caso di Yara, oggi 2022, a distanza di più di un decennio dai fatti, suscita ancora tanto interesse nella pubblica opinione: «Noi sulla carta, per la legge, abbiamo un colpevole, Bossetti, che sta scontando una sentenza definitiva e che quindi è stato giudicato responsabile dell’omicidio di Yara. Ma sono molti a nutrire dei dubbi. Si tratta di un affaire che ha prodotto e continua a produrre una grande spaccatura nel pubblico, molto divisivo.  Sulla morte di Yara sono state fatte indagini per le quali è difficile trovare un precedente in Italia, sono state mobilitate migliaia di persone per le prove sul DNA, nel corso delle quali sono emerse cose incredibili: si sono identificati un padre e una madre del fatidico Ignoto 1, rivelando una relazione clandestina che avrebbe – i condizionali sono d’obbligo – dato vita all’assassino. Cioè, al di là della grande presa, empatica, che ebbe su tutti la fine della povera Yara, esistono queste connessioni nascoste, che hanno finito per assumere contorni davvero romanzeschi. Mai come in questo caso, si dimostra come la realtà riesca davvero a travalicare ogni fiction. I difensori di Bosetti continuano a battersi: è proprio di queste ore la notizia che i suoi avvocati chiedono di conoscere dove si trovino le provette contenenti il DNA fatidico, conservate all’ospedale San Raffaele di Milano, poi sequestrate dalla Procura».

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Flavia Triggiani (foto Sibilla Mercuri)

La Loi e Flavia Triggiani sono ormai due rodate professioniste del true-crime: oltre ai ricordati lavori sul delitto Gucci e alla vicenda della Uno bianca, hanno in canna numerosi altri proiettili che si accingono a  sparare in quello che ormai si può ben definire un nuovo e ricoluzionario genere dell’entertainement anche in Italia:  per Warner Bros Discovery hanno realizzato Il branco, sull’omicidio di Desirée Piovanelli e Il trio diabolico, sul caso di Isabella Noventa, mentre per Cronache criminali di Rai 1, scritto e condotto da De Cataldo, si sono occupate del caso di Terry Broome, hanno intervistato Piero Maso, il parricida di Montecchia di Crosara e si stanno di nuovo concentrando sulla connection dei fratelli Savi. «Il true crime – dice Marina Loi – arriva allo spettatore in maniera molto più diretta di un racconto di pura fantasia, perché gli parla di storie che non sono astratte, ma affondano nella realtà. Una realtà prossima e imminente. Prendendo la vicenda di Yara: una ragazzina che si volatilizza nel breve tratto di strada che la separa da una palestra a casa sua, è molto più angosciante e inquietante di qualunque trama gialla si possa immaginare e la gente si identifica nella paura di qualcosa che non è lontana, esorcizzata su uno schermo, ma può essere lì, terribilmente in agguato, all’angolo di ogni strada… »

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Marina Loi (foto Sibilla Mercuri)