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A Classic Horror Story

2021
REGIA:
Roberto De Feo, Paolo Strippoli
CAST:
Matilda Lutz (Elisa)
Will Merrick (Mark)
Yuliia Sobol (Sofia)

Il nostro giudizio

A Classic Horror Story è un film del 2021, diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli.

Dopo lo sfavillante esordio con The Nest (Il nido), presentato in concorso a Locarno, Roberto De Feo si conferma uno dei più interessanti registi horror italiani contemporanei e torna alla regia di un nuovo lungometraggio: A Classic Horror Story (2021), co-diretto con Paolo Strippoli (al suo primo lungo), che sbarca su Netflix dopo la presentazione al Taormina Film Fest. Il film è un’originalissima rivisitazione del genere, che cambia continuamente registro e si muove in vari filoni, scivolando dall’uno nell’altro con la stessa credibilità dei più celebrati horror internazionali. Se The Nest era ispirato alle atmosfere di  Amenabar, Shyamalan e Del Toro, qui siamo invece più dalle parti del folk horror, un tipo di racconto epicorico che si nutre di spaventose leggende e mitologie popolari: per intenderci, il genere di Pupi Avati e Lorenzo Bianchini, oppure del classico The Wicker Man e del più recente Midsommar. Scritto a più mani ma con una regia che gira in perfetta simbiosi, A Classic Horror Story ha come protagonisti cinque persone in viaggio verso la Calabria a bordo di un camper: ci sono Elisa (Matilda Lutz), il nativo Fabrizio (Francesco Russo), il medico Riccardo (Peppino Mazzotta) e una coppia straniera, Mark e Sofia. Dopo un incidente lungo la strada, i viandanti si risvegliano in una radura fuori dal mondo, vicino a una casa dall’aspetto sinistro, e fanno una serie di macabre scoperte che rivelano la presenza di riti satanici: fuggire è impossibile, i cellulari non hanno campo, e tre raccapriccianti figuri  iniziano a fare mattanza dei malcapitati. Fare un  horror non è semplice, non basta piazzare effetti speciali, ma bisogna saper creare la giusta e inquietante atmosfera: De Feo e Strippoli ne sono consapevoli, e dimostrano di saper girare incredibilmente bene, con un film che possiede tanto un respiro internazionale nella forma e nei contenuti (con un’accuratezza estetica non comune e una struttura narrativa piena di twist), quanto una dimensione folkloristica squisitamente italiana – calabrese, per la precisione –, senza però mai scadere nel provincialismo.

A Classic Horror Story è un film che nasce come atto d’amore nei confronti del genere , attraverso la voluta riproposizione di topoi e citazioni dai classici  (Non aprite quella porta, La casa, Hostel, tra gli altri): un citazionismo insistito ma mai banale, che trova la propria ragion d’essere in un carattere meta-cinematografico che sarà fondamentale per lo sviluppo della storia – pensiamo a quando l’aspirante regista Fabrizio dice che “fare cinema in Italia è difficile”, oppure a quando i protagonisti iniziano a dissertare sul cinema horror. Esauriti i convenevoli – la presentazione del gruppo (fra cui spicca la bella e carismatica Matilda Lutz, quella di Revenge), il viaggio, l’incidente causato da un animale morto (sempre foriero di sciagure, pensiamo ai recenti The Invitation e Get Out) –, il film entra di prepotenza nella parte più consistente e di maggiore impatto, quella epicorica, con il progressivo disvelarsi dei macabri rituali pagani. Prima, i tre feticci nel bosco accompagnati da cinque teste di maiale, poi i disegni dentro la casa (una tetra abitazione a forma di tempio pagano), spiegati dal protagonista: si tratta di una vera leggenda calabrese, quella dei tre fratelli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, esseri malvagi coperti da mostruose maschere che praticano sacrifici umani e che sono considerati i fondatori delle Mafie (uno non vede, uno non sente e uno non parla). La bambina con la lingua mozzata e rinchiusa in soffitta segna l’inizio delle atrocità, che esplodono in modo dirompente con la tortura praticata a Mark dai tre lugubri figuri, con maschere lignee come nei disegni: De Feo riprende l’efficacissimo espediente della musica a contrasto, già utilizzato in The Nest, e fa subire al ragazzo le peggiori violenze (i piedi spezzati con le mazze, gli occhi cavati con un diabolico strumento) sulle allegre note de La casa di Sergio Endrigo – ricollegandosi così al prologo, quando una ragazza veniva torturata col sottofondo di Il cielo in una stanza di Gino Paoli.

Una scena che è a sua volta un preludio alla lunga e terrificante sequenza notturna del sacrificio umano, con il feticcio di vimini stile The Wicker Man e i malcapitati che vengono seviziati e privati di occhi e orecchie (anche quando c’è da mostrare il sangue, la regia non si fa scrupoli, con effetti speciali di prima classe), in mezzo a fuochi che crepitano e a una folla con maschere lignee e zoomorfe. A preparare il tutto ci sono le luci rosse abbaglianti, la colonna sonora con gli archi che stridono, le sirene che vibrano nel buio, ma la paura non si esaurisce con la notte, visto che la congrega satanica compare poi di giorno riunita attorno a una tavolata, senza maschere e comandata da Cristina Donadio (la Scianel della serie-tv Gomorra), ma in grado di sprigionare un’aria altrettanto malsana e terrificante. A questo punto, A Classic Horror Story cambia, diventa qualcosa d’altro, ma senza snaturarsi, e i colpi di scena si susseguono ininterrotti: spiegare di più è impossibile, ma basti dire che entriamo in un territorio affine al mondo degli snuff-movie, e il film riprende quel carattere meta-cinematografico che aveva solo momentaneamente accantonato; si entra, cioè, in un cortocircuito  che ricorda Quella casa nel bosco, ma senza sfociare nel fantastico, bensì rimanendo ancorati a un orrore immanente.