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Sono fotogenico

1980
Titolo Originale:
Sono fotogenico
REGIA:
Dino Risi
CAST:
Renato Pozzetto (Antonio Barozzi)
Edwige Fenech (Cinzia Pancaldi)
Massimo Boldi (Sandro Rubizzi)

Il nostro giudizio

Sono fotogenico è un film del 1980, diretto da Dino Risi

«Molto meglio Laveno». Così, rispondendo all’autista di un produttore italo-americano che, dopo averlo illuso sulla possibilità di avere una parte, lo rispedisce in Italia, Antonio Barozzi liquida Los Angeles e Hollywood. Accade in Sono fotogenico, uno dei “capolavori minori” di Dino Risi, forse in assoluto il miglior film da interprete di Renato Pozzetto, che qui (ma non solo qui) rende omaggio a uno degli amori della sua vita: «quella ridente cittadina sul lago Maggiore» da lui scelta come casa. Ragazzo di lago più che di campagna è lo stesso Barozzi, aspirante attore a dispetto delle speranze del padre che lo vede con «una testa perfetta da sportello di banca» e delle preoccupazioni della madre che teme faccia la fine di un ingegnere, caduto in depressione, al quale la gente «tira le mele». Sfottuto dagli amici del bar (il biliardo, così caro a Piero Chiara, lo sport preferito) che giungono persino a scrivergli una lettera firmandola Federico Fellini, il bamboccione decide di lasciare la famiglia, la stanza affollata da poster di divi del cinema con vista sull’acqua dolce, e di tentare l’avventura. A Roma capirà presto quanto la strada sia in salita ma farà incontri importanti. Su tutti quello con Cinzia (Edwige Fenech), attricetta in perenne conflitto con il fidanzato geloso e brutale, che, intenerita, gli farà posto nel lettone.

La prestazione sessuale “virtuale” del lavenese («Ti è piaciuto?», chiede lui appagato, dopo essersi acceso una sigaretta; «Cosa?», la replica della donna) e la sua esternazione spontanea («La madonnaaa, ragazzi!») davanti al magnifico seno di Edwige nostra (santa subito!) restano due dei momenti più significativi della loro, peraltro breve, relazione. Con sentimenti e risentimenti destinati a sconfinare nella stessa attività professionale. Deluso per essere stato scaricato, Barozzi, assunto come comparsa in un film di Mario Monicelli, per spiare Cinzia in una scena con Vittorio Gassman (straordinario mentre, nel locale pieno di libri, confida: «Se li ho letti tutti? Alla mia età più che leggere si rilegge») finisce nel posto sbagliato al momento sbagliato, viene ripreso e reagisce in malo modo, abbandonando il set dopo avere insultato tutti. Trovatosi bloccato in ascensore con il produttore, si cullerà per un po’ in un american dream destinato a infrangersi davanti alla dura realtà che lo riporterà a Laveno senza orizzonti di gloria. Per il finale amaro di un film agrodolce come la più nobile commedia all’italiana.

Cinema nel cinema con diverse pagine da antologia. Partendo dall’espressione immutabile di Barozzi («Idea mia», tiene a precisare Pozzetto) nello studio del fotografo che lo invita a dare volto a differenti emozioni, per giungere alla spettacolare incursione dell’agente Pedretti (un irresistibile Aldo Maccione), interessato solo a spillare soldi ai suoi assistiti, ai funerali del nonno di Antonio. E, ancora, l’autoironia di Barbara Bouchet, l’inno del corpo sciolto in versione Ugo Tognazzi, la presa in giro – non solo affettuosa – da parte di Risi del mondo del cinema, popolato da starlette disponibili a rifarsi il naso (allora era solo quello), maestri di recitazione – L’Officina del grande Simoni – pronti a zompare sugli allievi e registe intenzionate a scegliere il cast solo sulla base delle dimensioni del pene. E, ancora, Barozzi che, in treno, pensando ad alta voce, dà della troia a Cinzia e chiede scusa («Non dicevo a lei») all’unica sua compagna di viaggio che lo guarda perplessa. E, soprattutto, quel preciso ritratto di famiglia di provincia lombarda con il nonno che ti inizia alla visione delle donne nude e la mamma che, preoccupata dalla continuità delle “lenzuola imbrattate”, ti mette in guardia dal pericolo di diventare cieco. Davvero un film gioiello. Da rivisitare.