Amici miei compie 41 anni

Un classico assoluto, sul mito e sull’immortalità
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Amici miei compie 41 anni. Uscì in prima visione il 10 agosto del 1975 nelle sale italiane

Amici miei ha nel titolo, più di quanto si possa immaginare, l’essenza sottile di ciò che è. Pare che l’espressione sia l’inizio della frase con cui Pietro Germi si accomiatò dal mondo del cinema andando a morire in privato, da solo, come si dice facciano i gatti. «Amici miei, ci vedremo, io me ne vado…». E se ne andò. Mario Monicelli venne al suo posto e completò l’operazione, rispettoso a quanto tramandato e ossequiente di quel che avrebbe voluto Germi. Insomma, spira fin dal titolo, in Amici miei, questo strano sentore malinconico e occiduo. Diciamolo: di tomba. Un refolo di sepolcro che non cozza affatto con le salacità, le mordacità, le beffe crudelissime e gli scherzi feroci di cui si nutre la mitologia del film. Dico mitologia e dico bene. Le imprese degli zingari, il Perozzi, il Mascetti, Il Sassaroli, il Necchi e il Melandri, che quando ne fai l’elenco non hai bisogno di controllare i nomi su Wikipedia, perché sono fissi e scolpiti, eterni, in qualche parte del cervello di ciascuno, sono imprese mitiche, sono mythos, cioè rappresentazione, allegoria, elaborazione fantastica. Gli zingari portano realmente la fantasia al potere e tramite essa devastano l’ordine costituito, la ragione, il logos. Sbrigliano al massimo di libertà anche il linguaggio, sbriciolando al contempo con la follia del grammelot, della supercazzola prematurata, la fragilità della prima convenzione del nostro consesso.

Per questo, quando si leggono in Internet le reali identità dei cinque zingari che ispirarono Tognazzi, Noiret, Moschin, Celi e Del Prete, si è presi come da un rammarico e si respinge quella conoscenza perché è come se non rappresentasse un’informazione in più ma sottraesse qualcosa all’esistenza di quel quintetto mitico che per noi e per tutti dovrebbe essere come di fatto è, solo quello dello schermo. Sarebbe come se scoprissimo che Ercole prima di essere Ercole si chiamava, fate conto, Giuseppe o Luciano. Ercole appartiene a noi tutti perché innanzitutto appartiene solo a se stesso e al pensiero mitico che lo ha generato. Amici miei è una delle grandi tappe di quella storia del cinema italiano che ancora va scritta e che non è certo quella che insegnano i manuali universitari. Ma che nessuno avrà mai il coraggio di scrivere, perché un conto è dire a voce le cose, concordare, informalmente, sul fatto che film del genere siano un prezioso patrimonio della cultura italiana, un altro conto è invece fissare nero su bianco il concetto, assumersi la responsabilità, stabilire che Monicelli e i cinque zingari costruirono un film che dovrebbe venire studiato e notomizzato come si fa con una lirica del Pascoli o una terzina di Dante. Abdicando al solo “colore” – e quando dico colore si capisce che intendo, no? – che pure è importantissimo e sommo, ma che nel caso di un film come Amici miei non arriva a esaurire il discorso.

Il grande momento di Amici miei, il punto verso il quale tutto corre, la convergenza somma, è il rientro a casa del Perozzi, la mattina dopo la zingarata, quando nel suo appartamento Noiret ha concessi gli ultimi frammenti di esistenza. Apre la finestra, prende una boccata di aria, poi si stende sul letto tirandosi sopra la pelle di vacca come plaid. Era segnato che uno degli zingari dovessi morire, fin dal principio della storia e, del resto, gli zingari questo lo sapevano. La forza apotropaica della zingarata lascia inevitabilmente libere delle falle, nell’esistenza. E la Morte, da quella perfetta opportunista che è, si insinua in quei buchi e colpisce. Ma qui il passo in più, l’aumentazione rispetto a qualsiasi discorso simile, è che anche la Morte subisce la beffa e lo sfrucugliamento, viene derisa e quindi fottuta, umiliata e sconfitta. Che è poi, in fondo, la prova del nove che ci troviamo di fronte alla forza di un mito. Che, come tale, è immortale.