Leandro Lucchetti si racconta

Una lunga carriera tra cinema, scritto e girato, e televisione
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Nascere a Trieste

Sono nato a Trieste, alla fine della guerra. Ho vissuto nella Trieste del secondo dopoguerra, una città che era stata occupata dai nazisti. C’era stato l’unico campo di concentramento in Italia, la Risiera di San Sabba, e c’erano degli scontri ideologici ancora molto forti fra i fascisti che, checché se ne dica, esistevano come sono sempre esistiti. Il diverbio nasceva dal fatto che Trieste doveva essere assegnata all’Italia o alla Yugoslavia. Gli alleati, come al solito, davano un colpo al cerchio e un colpo alla botte, dividendo la zona in A e B: la prima (comprendente Trieste) rimase sotto controllo militare alleato e doveva essere territorio libero di Trieste. La zona B, invece, fu assegnata al nuovo governo yugoslavo di Tito. Ho fatto lì le mie scuole, senza avere una strada precisa in mente. Frequentavo il Liceo Classico con scarso interesse. Anche questa non so spiegarla: a scuola andavo male, non studiavo, invece per conto mio studiavo da matti. Quindi mi sono fatto una cultura indipendente e forse maggiore di quella che mi avrebbe dato la scuola, dove non andavo oltre la sufficienza e un paio di volte fui bocciato. Infatti, quando ho finito il liceo classico avevo già due anni in più dell’età canonica, non sapevo bene che cosa volevo fare ma sapevo di certo che non avrei fatto quel che faceva mio padre, il commerciante.

Cowboy & fantascienza

Mio padre aveva fatto la guerra ma non parlava mai, come del resto tutta la gente che aveva combattuto. Quindi noi non sapevamo nulla della storia, della sua storia. Difatti la mia prima passione fu Emilio Salgari, che mi ha dato il desiderio di avventura e la passione per il cinema western americano, quello vero. Questo mi farà avere la discrasia che ho lavorato per il western italiano che, in realtà, disprezzavo, perché io ero sempre stato un appassionato del genere nella sua variante classica. Ricordo ancora la prima volta che vidi Per un pugno di dollari, all’Arcobaleno, un cinema medio di Trieste, che aveva ancora tutte le sedie di legno. Pensavo fosse un vero western e mi sono trovato davanti sta cosa, mormorai “Cos’è sta cagata?”. Era firmato Bob Robertson, passava per western americano. Mi sono letto tutti i classici della fantascienza americana, ho provato a scrivere qualche raccontino per Urania, con lo pseudonimo di Henry L. Ackerman ma soprattutto per quelle che si chiamavano fanzine, delle autopubblicazioni (sia in Italia che all’estero, in Francia soprattutto) di appassionati che si editavano in ciclostile. La passione per il cinema western mi portò all’amore per il cinema generale, avevo anche dei punti di riferimento: uno era Ingmar Bergman, di cui ricordo ancora l’impressione che mi fece Il settimo sigillo; poi Akira Kurosawa (era il periodo in cui si scoprì in Europa il cinema giapponese) e il primo Fellini. La mia teoria che alcuni condividono è che Fellini è stato un grande regista fino a 8 e mezzo, dove racconta la sua crisi personale che non supera. I film che fa dopo sono, difatti, dei barocchismi. Continuo ad avere la certezza che il suo film migliore sia I Vitelloni, così come per Pasolini il migliore è Accattone, tutto il resto sono intellettualismi. Uccellacci e uccellini aveva una sua poesia, che era però legata al personaggio di Totò in rapporto al ragazzino coatto, un’intuizione poetica di Pasolini, grande poeta, non un grande scrittore secondo me.

Bruno, mio cugino

Avevo un cugino che lavorava nel cinema, si chiamava Bruno Di Geronimo, andai direttamente da lui, praticamente senza conoscerlo perché non c’eravamo mai contattati parentalmente. Gli dissi che avevo finito il liceo, che non volevo fare l’università, fortunatamente non avevo il problema del servizio militare, perché Trieste da territorio libero non era sotto la giurisdizione italiana. Lui in quel momento stava facendo la sceneggiatura di un western italiano, diretto da Aldo Florio che era un noto aiuto regista che faceva con questo film la sua opera prima. Collaborai in sceneggiatura senza firmarla, aveva un bellissimo titolo, Fischia amico e verrò, che ovviamente non piacque ai produttori e il titolo divenne I cinque della vendetta. Protagonista era un americano, Guy Madison, uno dei tanti americani di serie B che veniva in Italia. Si, serie B però anche lui grandissimo professionista: ricordo che mi colpì come si preparava per le scene d’azione, i nostri erano un pò allo sbando, lui si metteva paragomiti, paraginocchi, s’imbottiva il corpo, c’aveva tutta una professionalità che da noi era assolutamente impensabile. E oltretutto non era un cattivissimo attore, aveva una faccia abbastanza importante, aveva anche fatto un paio di western di livello in America. Cominciai anche a guadagnare dei soldi facendo la comparsa. Anche nel film di Florio: ero travestito da messicano col sombrero, avevo i capelli lunghi, la barba nera.

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Scrivere il cinema

Ho lavorato con Tonino Valeri, una delle mie tante occasioni perse. Fu l’unico regista che in qualche modo ebbe successo nel western dopo Leone, non come Corbucci che accentuava il grottesco (e lasciamo stare quella puttanata di Terence Hill). Valeri era quello che più si atteneva al genere nel suo stile classico e scrissi un soggetto che però lui non riuscì a fare, anche perché credo si ammalò e poco dopo morì. Dopo questa spiacevole situazione, scrissi invece un altro soggetto che comprò Luigi Rovere, un vecchio produttore in attività da prima della guerra, un piemontese, quindi molto sul pezzo, non il classico produttore romano caciarone, casinista, Rovere era uno di stampo militare. Gli piacque il lavoro, doveva farlo un regista sua opera prima, si chiamava Giampaolo Taddeini, che era stato a sua volta un apprezzato aiuto regista. Era la storia di un giovane che doveva vendicarsi e che per entrare nell’ambiente nemico fingeva di essere scemo, un pò il Terence Hill di Trinità ma senza lo sporco e le scoregge. Andò a finire che siccome sia Taddeini che io conoscevamo Di Geronimo, gli proponemmo a Rovere come sceneggiatore mio cugino. Lui lo conosceva e accettò che facesse il lavoro. Senonché, in quel momento Di Geronimo stava collaborando con Vittorio Cottafavi (di cui avevo apprezzato I cinque cavalieri, primo tentativo serio di fare un film, in Italia, di ambientazione medievale-cavalleresca) e riteneva questo progetto più importante sia per il nome del regista sia per il progetto in sé. Fece quindi una sceneggiatura sbrigativa che a Rovere non piacque e quindi persi questa occasione. Ricordo che rimasi talmente scioccato da questo fatto che, benché Rovere mi avesse inizialmente apprezzato e poi disprezzato, e avendo anche io messo mano alla sceneggiatura, restituì l’anticipo che lui mi aveva dato, seicentomila lire. Occasione perduta anche per il povero Taddeini.

Il porco mondo di Bergonzelli

Persa l’occasione con Rovere, conosco Bergonzelli il quale aveva letto questo soggetto che avevo scritto. Mi telefona, dice che aveva bisogno di un giovane collaboratore che lo aiutasse a scrivere sceneggiature. Perché lui era uno che scriveva cinque sceneggiature insieme, faceva dei capitoli [ride]. Un giorno faceva la sceneggiatura numero uno e un giorno dopo l’altra. E quindi c’è stato un piccolo periodo di collaborazione. L’aneddoto più lampante era che lui era un puttaniere tremendo, cioè faceva delle cose con le attrici che non ti dico. Bergonzelli era uno così, senza nessuna remora. L’altra cosa che faceva ridere è che lui (sposato, con una figlia) aveva una segretaria che era anche la sua amante, tutti lo sapevano, lui invece la trattava… stile sceneggiatura soft-porno! Sapevo dell’edizione hard di La Sposina, me l’aveva detto. Collaborammo e poi il rapporto si esaurì, perché lui non usciva da questo vaso che si era costruito. Ma anche lui molto abile, perché tutte le volte riusciva a trovare i soldi per finire i film e in qualche modo li vendeva. Non è diventato ricco ma non ha neanche mai avuto dei tracolli, come invece tanti, ecco…

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Deserto di fuoco (1971)

Tutto parte dal fatto che io avevo fatto amicizia con uno scrittore abruzzese, Gianni Passeri, questo nell’ambito delle conoscenze ideologiche che avevo in quel momento perché, in reazione all’ambiente triestino (quello borghese in cui operava mio padre e che era di retaggio fascista; io avevo tra l’altro un fratello maggiore che era un esponente del MSI a Trieste) mi sono approcciato al lido comunista. Questo Passeri era un reduce di guerra che aveva combattuto in Albania, corrispondente de L’Unità, autore di due libri socialmente impegnati. Anche lui era dentro il cinema, collaborava soprattutto con un regista che divenne famoso per un documentario su Ligabue, Raffaele Andreassi, che conosceva un personaggio particolare, Renzo Merusi, un uomo ricco che aveva la passione del cinema e voleva, però, con l’orgoglio e la strafottenza del magnate, non dipendere da un produttore. Si innamorò di un romanzo di Joseph Conrad e siccome aveva i soldi comprò i diritti. Prese come protagonista un’attrice emergente, che poi era Edwige Fenech, e un romano che lavorava con un nome americano. Quindi chiese a Passeri di fare una sceneggiatura. Passeri non aveva voglia perché stava scrivendo un romanzo e mi passò il sub-appalto. Merusi fece il film in Tunisia e andò abbastanza bene. Tra l’altro, c’era un’attrice tunisina abbastanza famosa che faceva la madre di Edwige. Credo poi che i soldi incassati, Merusi, se li mangiò con altri film che non ebbero successo.

Per conoscere Pasolini (1978)

Ero andato a contattare Pasolini perché volevo chiedergli di fare l’assistente in uno dei suoi film e mi aveva detto di sì, senonché, invece, viene assassinato. Io sono stato uno dei primi ad arrivare sul luogo del delitto per filmare il sito com’era e poi, siccome in quel periodo stavamo sempre insieme io e Luca Ajroldi e lui di famiglia danarosa (al contrario di me) aveva una Giulietta Spider uguale a quella di Pasolini, ci venne in mente di fare ‘sto documentario usando la macchina per arrivare sul luogo del delitto. Integrammo poi il tutto con una serie di interviste all’entourage pasoliniano, da Ninetto Davoli alla cugina Graziella. Lo presentammo al Festival di Taormina da cui ebbe un riconoscimento, niente di particolare. Vendemmo questo documentario alla RAI che mi chiese, l’anno dopo, di ricostruire nuovamente la figura. Quindi praticamente lo stesso girato integrato da altre cose, che ripresentai poi al Festival di Taormina l’anno dopo e di nuovo ebbe un riconoscimento di merito. Questi due documentari sono conservati alle Teche e vengono saccheggiati tutte le volte che qualcuno tira in ballo Pasolini. Con Ajroldi scrissi anche nello stesso periodo una sceneggiatura, Senza soluzione di continuità. Si era innamorato di un romanzo di Julio Cortazar, di cui voleva fare un film e siccome eravamo amici di lunga data, chiese a me di fare la sceneggiatura. Feci un lavoro di cui non ero convinto, perché il romanzo di Cortazar era piuttosto ingarbugliato, la storia di un uomo che sogna il suo suicidio e comincia a organizzare la propria vita come l’aveva vista nel sogno affinché si concludesse, appunto, con un suicidio. Io non è che c’avessi capito tanto, comunque feci un lavoro che Luca apprezzò ma il progetto non si concretizzò mai.

Benvenuti a Trieste (1978)

C’era un programma che si chiamava Ritratti di città, curato da un certo Vittorio Marchetti e fra i vari, appunto, ritratti di città c’era Trieste. Loro sapevano che ero triestino e sempre quel direttore di rete, su richiesta di Marchetti, mi dice “Vuoi fare la regia?”. Quindi faccio un programma in tre puntate, raccontando la storia della città più le cose culturali che la riguardavano, compreso gli eventuali scrittori, artisti eccetera. Però quello che faccio non piace ai triestini: avevo dato un quadro di Trieste più di sinistra, che dava conto dei vari retaggi della destra militante (era il periodo di recessioni e manifestazioni, c’era una gioventù neofascista che spadroneggiava per la città). Dunque in quel momento c’era una lista civica, la prima mai costituita in Italia, si chiamava Il Melone, per la base rotonda di una colonna con alabarda simbolo di Trieste. Il Melone non accetta questo mio programma e fanno una protesta ufficiale alla RAI chiedendo il mio licenziamento perché avevo fatto, secondo loro, un’operazione in cui davo un ritratto di Trieste non consono. Quindi devo giustificarmi con i dirigenti di rete. Vado allora per fare una conferenza a Trieste e la città, come al solito, si spacca in due (tra sinistra e destra). Io faccio questa conferenza durante il quale i militanti neofascisti mi minacciano e mi aspettano fuori per menarmi. Dal punto di vista umano è stata abbastanza importante come esperienza.

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Tesserato RAI

In RAI entro perché con quel regista mancato del film di Rovere, Taddeini, eravamo diventati molto amici, quindi mi prende come suo aiuto quando diventa regista televisivo. Più sani e più belli era un programma condotto da Rosanna Lambertucci che si occupava di benessere e principalmente bellezza femminile, cose di terme, creme, profumi o trucchi. Ebbe un successo strepitoso, andò avanti una quindicina di anni (non tutto fatto da me!). E quello fu uno dei momenti in RAI piuttosto importanti. In studio ho fatto anche Giorno di festa, un programma che si faceva in diretta tutte le domeniche, in un paese dell’Italia, durante una manifestazione tipica e insieme si faceva un ritratto del paese sia per le opere d’arte che per i personaggi. Finì in maniera traumatica, perché mi venne l’idea di fare una episodio in diretta da una cerimonia domenicale degli Are Krishna: fuori Firenze questi avevano comprato una villa dove facevano i loro riti e la domenica facevano un rito d’onore aperto a tutti, in cui offrivano cibi alla divinità e poi si faceva un convivio generale in cui si partecipava in collettività. Volevo fare una diretta da lì, avevo anche un amico compositore e il direttore di rete mi dice “Non voglio gli Are Krishna!”. La cosa si estinse così, su due piedi. Poi dovevano fare per la prima volta un programma di ispirazione cattolica condotto da un prete. Chi chiamano? Chiamano me. Si chiamava Prossimo tuo, con Don Giovanni D’Ercole, un prete belloccio, televisivo, di quelli che aveva un seguito femminile. Piano piano operando un pò da servizio segreto, mi impadronisco di questo programma e lo trasformo da programma religioso in programma di ricerca etnografica sulla spiritualità dei popoli nel mondo. Comincio quindi a girare il globo facendo documentari che vanno in onda in RAI spacciati per programmi religiosi ma in realtà etnologici. Faccio questo praticamente fino a quando vado in pensione.

Viaggio al paese dei Tarahumara (1983)

Prima di alcuni documentari per l’ENI ne avevo realizzato un altro per la RAI, Viaggio al paese di Tarahumara, forse uno dei migliori che abbia mai fatto, premiato al Festival dei Popoli di Firenze. Chi sono i Tarahumara? I Tarahumara sono una popolazione di indiani affini agli Apache che vivevano al confine tra il Messico e il Texas. Per sfuggire all’invasione fanno una guerra che naturalmente perdono, sia con gli americani che con i messicani. I superstiti si rifugiano nella Sierra Madre occidentale in una zona piena di Canyon, Barrancas Del Cobre, dove all’epoca dei conquistadores c’erano le miniere di rame (cobre = rame in spagnolo) ed è la zona dove adesso invece ci sono i narcos che coltivano la cocaina. Un famoso attore francese, Antonin Artaud, poi morto in manicomio, era un cultore dei riti sciamanici e andava alla ricerca delle droghe che usavano gli sciamani, come il Peyote, un fungo parassita allucinogeno dei pini montani. Quindi lui intraprende un viaggio per raggiungere questa Sierra e fare questa esperienza. Quando torna scrive un libro in cui fa un resoconto visionario del viaggio. Ho fatto il documentario sulle tracce di Artaud, ricostruendo il percorso. L’ha prodotto Beppe Tenti, uno che produceva documentari, ha fatto anche una serie per la RAI chiamata Overland, un camion che girava il mondo.

Tripoli bel suol d’amore (1984)

È il periodo in cui c’è l’egemonia socialista in rete, dovevano fare un programma storico e un giovane di estrazione socialista entra in RAI con l’input dato dal partito che deve fare un documentario sulla conquista italiana della Libia, solo perché interessava a lui, siccome mi pare avesse stilato anche una tesi universitaria sull’argomento. Chi fa il regista di questa cosa? Siccome, appunto, io avevo la fama di quello che aveva lavorato nei western e siccome bisognava andare in Libia e non ci voleva andare nessuno, il direttore di rete di quel momento mi chiama e mi dice, “Vuoi andare lì?”. Era il periodo subito dopo la rivoluzione di Gheddafi, Io dico “Caspita certo! Ci vado più che volentieri in Libia!”. Poiché mi sono sempre interessato di storia, avevo anche già una conoscenza notevole sui fatti e quindi facemmo questo viaggio. Tre puntate su tutta le vicende dal 1911 (quando i primi marinai sbarcano sulla spiaggia di Tripoli) fino al 1943 quando tutto finisce. C’era Maria Nunzia Tambara, era la donna di un mio amico e aveva la voglia di fare la cantante, aveva una discreta voce. A me viene l’idea di farle cantare, nella sigla del programma, in maniera moderna la vecchia canzonetta Tripoli bel suol d’amore che era una canzone che fu scritta in occasione dell’arrivo dei marinai in territorio straniero. Giriamo una scena al tramonto, lei aveva una divisa coloniale, senza pantaloni, solo la giacca. Quando incide questa canzone, la incide come “Tambara”. Vado dal direttore di rete e gli dico “Guarda, è tutto apposto, ho fatto la sigla e c’è una cantante che si chiama Tambara”. Lui mi guarda e mi dice “No, negri nel programma non ce li voglio!”. Perché Tambara evidentemente gli aveva riecheggiato qualcosa…

Maledetta Euridice (1985)

In quel periodo, in RAI, si facevano tutta una serie di rubriche di servizio tipo A come agricoltura o Io compro tu compri. Poi c’erano delle rubriche religiose. Insieme a Taddeini facevo anche dei servizi filmati. In contemporanea, siccome queste cose mi davano poca soddisfazione, stavo preparando il mio progetto per il cinema. Un amico che aveva cominciato a lavorare in RAI con me, ad un certo punto, per motivi suoi personali e per una sua certa abilità, riesce a mettere insieme un gruzzolo notevole. Ne parlavamo sempre, lui voleva fare il produttore ma più perché era uno come Bergonzelli, cioè pensava che quel ruolo lo avrebbe portato a che fare con le attrici e con i relativi sviluppi. Sempre mio cugino, Bruno Di Geronimo, aveva scritto un soggetto che non era esattamente così distopico come quello che poi ho elaborato, quindi lo prendo in mano e dico “Facciamo insieme la sceneggiatura”, una discreta sceneggiatura secondo me, che però aveva bisogno di un produttore che avesse soldi per fare un film adeguato e di attori veri. Noi purtroppo non avevamo queste possibilità. Io non riuscii ad esserne all’altezza, nel senso che il film fu fatto con pochi soldi, il mio amico non era Ponti e quindi questo film fu fatto rinunciando a varie cose che invece erano necessarie. Per esempio, c’era questa storia del camper che doveva aggirarsi per la città, doveva essere un camper figurato in maniera da carro da morto, in cui entravano queste persone. Non avevamo i soldi per attrezzare e dipingere in carrozzeria e quindi fu un camper da campeggio! Per quel che riguardava gli attori, per i soldi che c’erano a disposizione, la protagonista fu Cristina Donadio, l’unica attrice vera. C’era Mary ‘O (1), c’era Marco Di Stefano e c’era un attore che io scelsi (sbagliando) che si chiamava Pier Luigi D’Orazio il quale anche lui voleva fare l’attore e questa era la sua prima occasione. Quale fu il problema al di là che lui fosse o non fosse un bravo attore? Lui fa Orfeo, quindi l’innamorato che va a cercare la sua donna. Io non me ne ero accorto, ma lui era omosessuale. Che cosa ha comportato, questo? Che l’omosessuale in determinate situazioni ha delle movenze che rivelano questa sua omosessualità. Lui aveva tutta una serie di scene in cui doveva correre e io purtroppo, non essendomene accorto prima, quando lui girava queste scene mi sono accorto che correva con delle movenze femminee… che era la morte del personaggio! Avevo costruito una serie di ambienti fatiscenti, sporchi, in cui lui doveva correre per andare a cercare ‘sta ragazza, doveva essere l’eroe, il maschio, che andava alla ricerca e invece lui così. Il film ha avuto una sola proiezione al Capranichetta, c’era parecchia gente. Purtroppo il produttore Alfieri non aveva soldi per stampare ulteriori copie e per fare pubblicità. La così morì là. Mandai il film ad uno dei critici più importanti di quel periodo, il quale lo bocciò accusandomi di aver fatto un film apposta per denigrare i critici e ancora oggi non saprei dire dove diavolo ha trovato questo demerito. Lui aveva visto nel comportamento del personaggio di Orfeo  qualche cosa che lo aveva colpito come un’offesa personale.

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Cristina Donadio

Nazisti & Vietnam

Luigi Ciccarese, che era stato mio operatore per i documentari, viene chiamato da Ettore Spagnuolo per fare I Mercenari dell’apocalisse e cercavano un regista. Mi chiama, parlo con Spagnuolo, ci prendiamo abbastanza e faccio questi due film. Lui mi chiede se sono capace di amalgamare riprese di repertorio e riprese originali, difatti una parte delle scene di guerra sono de La battaglia della Neretva (1969) un kolossal yugoslavo di cui Spagnuolo aveva comprato le scene non montate…banche Leone cominciò così! C’era Vassili Karis, c’era Marco Di Stefano, c’era un ciccione di cui non ricordo il nome e poi il grande Paul Muller. Nella mia fantasia utopica, quando avevo pensato di fare il cinema, avevo pensato di crearmi una family di attori, gente che lavorasse sempre con me, cosa ovviamente mai avvenuta. Durante la lavorazione dei Mercenari dell’apocalisse, litigo con Spagnuolo e mi dice alla fine che non farò mai più film con lui (cosa poi mai avvenuta) questo solo perché per il personaggio femminile Spagnuolo non aveva soldi, ci pensai io e vedendo una serie di fotografie di agenti, noto una faccia di una ragazza che, proprio perché non era bella ma significativa, la scelsi. Prendiamo questa, la faccio chiamare, lei mi dice ok, si chiamava Marinella Magrì. Il fatto per cui l’avevo scelta, la faccia, non piace a Spagnuolo, diceva “Questa c’ha la scucchia!” cioè il mento pronunciato. Però ormai era tutto pronto e questa non era male come attrice. La cosa migliore di Mercenari dell’apocalisse è una lunga sequenza nelle grotte di Pastena, vicino Frosinone, una serie di gallerie in cui ambiento un bunker nazista in cui i partigiani entrano. Mentre per La Vendetta girammo questa scopiazzatura del Vietnam con l’elicottero, con l’attacco e esplosioni, quest’ultimo materiale acquistato da altri film (2). Il resto era tutto girato in una zona sull’alto Tevere dove c’era un isolotto con erbe palustri. Richard Roundtree non parlava italiano, io non masticavo l’inglese, ci furono delle situazioni particolari in cui Roundtree faceva delle pause durante le battute che, siccome io non capivo bene, un paio di volte (facendo una figura di merda) interpretai come interruzione mnemonica quindi diedi lo stop. Gli americani sono antipatici in quanto americani ma per il resto professionalissimi. Tutti e due i film furono pensati solo per le cassette.

Nosferatu a Venezia (1989)

L’idea primordiale viene da Carlo Alberto Alfieri, socio di Augusto Caminito, nel fare qualcosa a Venezia. Si parte quindi dal Carnevale, che in quel periodo si era di nuovo guadagnato uno sviluppo e una fama a livello mondiale. Tant’è vero che lui personalmente va a girare una sorta di resoconto della celebrazione ma, non essendo un regista, ottiene null’altro che una caterva di pellicola dell’evento. Cosa ne facciamo di questo materiale? Sempre Di Geronimo, amico di Alfieri prima di me, a cui dico che, siccome c’era stato il successo del film di Herzog, Venezia sarebbe anche un’ottima ambientazione per fare un nuovo Nosferatu… Anche perché Caminito si era innamorato dell’interpretazione di Kinski e voleva fare qualcosa con lui, quindi quasi per caso nasce il film. Però Alfieri pensa che Caminito non avrebbe ritenuto adatto me come sceneggiatore, quindi vengo inizialmente escluso dal progetto. In teoria, Kinski avrebbe dovuto essere stato truccato come nel film di Herzog ma non c’erano i soldi e Kinski col cazzo che si sarebbe sottoposto nuovamente a ore e ore di trucco! Per cui quello nel film non è Nosferatu ma un naturale Klaus Kinski. La sceneggiatura la fanno un pò Caminito, un pò Di Geronimo, un pò un altri. Tutte queste versioni non piacciono e alla fine Alfieri ritorna da me e mi dice di metterci mano. Ho rifatto completamente il lavoro ma nel film compaio solo come soggettista, la sceneggiatura è firmata dai precedenti autori. Forse è il momento in cui ho guadagnato più soldi per il mio mestiere di cinematografaro, ancora oggi mi arrivano soldi dalla SIAE. L’altra bega era relativa alla regia, prima Kinski dice “Lo faccio io!”, Caminito, avendo capito che personaggio ha davanti, dice di no e dopo un tira e molla la fa Caminito. Kinski, sebbene venne pagato poco rispetto al suo status, accetta la parte con il patto che poi Caminito gli farà fare il Paganini (1989) e il resto è storia.

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Nosferatu a Venezia

Bloody psycho (1989)

Sempre Carlo Alberto Alfieri e Caminito che cosa fanno? Hanno l’idea di sfruttare il nome di Fulci per fare una serie di film che dovevano essere destinati alle cassette, al mercato estero e alla televisione. Pagano praticamente il nome di Fulci, il quale aveva bisogno di soldi (come sempre del resto, lui era così) e quindi si fa una serie di cinque film che devono portare il nome di Fulci, come al solito, in un cinema poco serio come il nostro dove si fanno ‘ste cose. Ma che storie? C’è Simonelli, che è uno di questi che ha messo mano a vari film del genere, che aveva scritto cinque soggetti più o meno horror, dei quali fa una pseudo sceneggiatura e uno di questi Alfieri me lo propone. Io leggo questo soggetto, ci rimetto le mani, mi invento Bloody Psycho e giro ‘sto film. Peter Hintz è arrivato tramite un agente, non ricordo esattamente le circostanze. C’era Loes Kamma che era questa stangona olandese che però voleva fare la produttrice. La Brigitte Christensen che era la donna di Marco Di Stefano, era brava, a me piaceva e aveva una faccia importante. Io faccio uno sketch, megalomania pura. Mi sono inventato di far fare questo personaggio particolare a Vassili che lui non aveva mai fatto. Lui in presa diretta fece un’interpretazione molto bella secondo me che fu rovinata in doppiaggio, dove c’era sempre la sua voce. Io cercavo, se potevo, che il doppiatore fosse l’attore stesso. Però lui nel doppiaggio non riuscì ad avere la stessa intensità che aveva avuto nella presa diretta. Mi propose Alfieri di fare anche Hansel e Gretel (1990) ma dissi “Mo’ basta!”. Perché tutti questi film richiedono un impegno psicologico e anche fisico non indifferente, perché sono tutti film girati in quattro settimane. Sembra una cazzata ma fare un film in quattro settimane non è uno scherzo. La durata media di un film a basso costo è di sette settimane. Soprattutto se sono poi film d’azione…

Alla ricerca di Bottego

Vittorio Bottego è un personaggio diciamo da western, un avventuriero africano, di Parma. Ci sono tutta una serie di personaggi ottocenteschi, degli esploratori italiani che hanno avuto notevoli avventure in Africa. Io dico sempre che se invece di essere italiani fossero stati inglesi, francesi o americani, ci sarebbero stati su di loro dei film a strafottere, romanzi e quant’altro. Basti pensare a David Livingstone. Soprattutto, oltre che non averne mai parlato, subito dopo la guerra sono stati proprio, non dico cancellati ma condannati all’oblio perché erano stati esaltati durante l’epoca fascista come esempio di eroismo coloniale. Però Bottego era un personaggio effettivamente interessante dal punto di vista narrativo e quindi io ce l’ho sempre avuto in mente come possibilità per un film e non ci siamo andati tanto lontano, perché avevo contattato Franco Nero che aveva persino accettato. Io sapevo tutta la storia di Bottego, era una storia particolare, c’era di mezzo la sporca dozzina; lui, quando riceve l’incarico di fare questa spedizione (siccome deve addentrarsi in un territorio inesplorato), per comporre la squadra va a cercare il suo gruppo armato in un’isola nel Mar Rosso, dove il governo italiano confinava delinquenti e militari disertori. Poi fa questo viaggio che è perigliosissimo, deve sostenere dei combattimenti, scopre l’enigma geografico che era andato a cercare (non si sapeva dove sfociasse il fiume Omo, lui scopre che sfocia nel lago Turkana). Quando torna in patria non sa che c’è stata la battaglia di Adua, che l’Italia ha perso e che, quindi, lui non può più camminare come nominatore e quando capita in una zona vicino Gambela, dove c’è il governatore locale, viene bloccato e gli viene detto “O ti facciamo prigioniero o te ne vai disarmato”. Bottego che era figlio di buona donna, colonialista convinto, rifiuta e accetta la prigionia, dove poi viene ucciso ma diventa eroe del fascismo. Venutelli e Citeri, i suoi due luogotenenti, sopravvivono, invece, alla battaglia, fanno alcuni anni di prigionia in Etiopia e quando tornano in Italia scrivono un libro che racconta della cronaca di questa avventura con segnati tutti i luoghi dove sono passati. Particolarmente significativo perché lui, nel suo percorso, passa da zone dove ci sono delle tribù particolari che sono ancora oggi così. La zona che lui batte non ha subito modifiche, è rimasta incontaminata, con popoli particolari come i Mursi o gli Harar, famosi per la bellezza delle loro donne, nude e interamente colorate di vivo ocra. Quindi con Amighetti e con l’occasione che la Cassa di Risparmio di Parma voleva in qualche modo commemorare questo concittadino, si pone in piedi questa produzione, cioè rifare il percorso che avevano fatto fino alla collina dove era stato ammazzato. Fu molto sfruttato a Parma, il documentario. Riuscimmo poi a venderlo alla RAI.

Caged – Le prede umane (1992)

Con Crisanti faccio Caged. Sempre quattro settimane, in Portogallo, era un film d’azione. Caged aveva come coproduttore quello che era anche il protagonista, Aldo Sambrell, uno dei caratteristi più famosi degli spaghetti western, che con i soldi che aveva guadagnato si era messo anche lui a fare il produttore. Quindi era una co-produzione Crisanti-Sambrell. È stato girato nella zona di Setubal con due attrici spagnole, Pilar Orive che era un bel tronco di ragazza e Isabelle Libossart. C’era Gaetano Russo che io detestavo e che fu imposto da Crisanti perché era amico suo e penso gli diede quattro lire, perché era un cane infernale convinto di essere un grande attore, una cosa inenarrabile. Setubal ora è famoso perché è dove nato Mourinho. L’entroterra di Setubal è una zona un pò paludosa che si prestava e c’era un castello, un vecchio castello portoghese che utilizzammo come carcere. Ho fatto un sopralluogo con Crisanti in Venezuela, perché dovevamo fare un altro film che poi non iniziammo nemmeno. Caged fu accusato di essere pornografico e di far parte di quel ramo, credo sia quello che all’estero ha avuto più successo. Ricordo che avevo conservato anche dei manifesti in cinese. Sambrell voleva scoparsi le due attrici. Del periodo ricordo Pasquale Fanetti che era un collaboratore di Gabriele. Lui fece un film come regista, non so se erotico o pornografico e in cui misero il mio nome nella sceneggiatura e io mi incazzai con Crisanti (3).

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AIDS – La ragnatela del silenzio (1993)

La ragnatela del silenzio nasce da Samà che era un direttore di produzione e che nell’ambito delle sue conoscenze di destra che io in quel momento però non sapevo, si mette insieme ai fratelli Di Luia che erano due notissimi stuntman e anche due picchiatori fascisti (ma di questo, invece, ne ero a conoscenza). Però Samà, che non mi ricordo come avevo conosciuto, mi chiama e dice “Io voglio che tu fai la regia di questo film, prodotto dai Di Luia”. Confesso che dal punto di vista professionale, la voglia di fare superò il fatto che questi due avessero questa ambigua fama e dietro le insistenze di Samà accettai di fare la regia di questo film. Era il momento in cui ci fu l’esplosione dell’epidemia dell’AIDS nel mondo, c’erano stati sui giornali casi già sviscerati di gente che lo aveva avuto o che aveva contaminato scientemente o per vigliaccheria il rispettivo partner e Di Luia aveva scritto questo soggetto e scribacchiato una sceneggiatura mediocrissima che mi presentarono e a cui rimisi mano. Scelsi Marco Di Stefano come protagonista, lei era un’altra tedesca che non mi ricordo come si chiama, pure lei produttrice o amica di produttori. Cipriani, per le musiche, lo chiamò Di Luia. Ci furono due problemi, uno fu che io feci girare una scena di nudo maschile, una scena d’amore, capovolsi il costume abituale secondo cui la donna era sempre quella nuda e del maschio si vedeva poco e invece feci un nudo integrale di Marco Di Stefano. Questo non piacque a Di Luia e avemmo uno scontro per cui io non volli che si cambiasse la scena, lui acconsentì ma poi invece la tagliò, quando io però già non c’ero più. Sì, perché durante il montaggio, siccome si doppiavano i film e il doppiaggio lo faceva uno studio in cui c’era un capo doppiatore che riscriveva i dialoghi secondo il suo concetto (questo dialoghista si chiamava, mi pare, Casanova) questo scrisse dei dialoghi che non avevano niente a che vedere, secondo me, con quello che avevo scritto in sceneggiatura e siccome alla fine Samà era più d’accordo con Casanova che con me, durante una proiezione mi arrabbiai, me ne andai e dissi: “Vabbè, mi avete rotto le balle, non voglio più avere niente a che fare con voi”. Non no mai più messo mano al film, mai più visto, mai più saputo niente. E così ho anche lasciato il cinema. Qualcosa poi nella mia carriera, di regie ombra e fegatelli, ho fatto ma non ricordo niente.

OGGIGIORNO

Oggi Leandro Lucchetti oltre che essere in pensione, scrive.

La scrittura è sempre stata il mio pallino. In gioventù avevo la fissazione della fantascienza, poi, per vicissitudini del lavoro, se dovevo scrivere una cosa scrivevo una sceneggiatura, quindi ho abbandonato la narrativa fine a sé stessa che una volta andato in pensione ho avuto modo di prendere. Scrivo romanzi, libri di racconti, lo faccio per il mio piacere. Però prima di ricominciare a scrivere ho girato una buonissima parte del mondo facendo documentari, appunto, che riguardavano etnie particolari, soprattutto i loro riti e gli usi e costumi. Questo, forse, è quanto.

FILMOGRAFIA

Regie Cinematografiche

Maledetta Euridice (1985) – inedito; I mercenari dell’apocalisse (1987); La vendetta (1989); Bloody psycho (1989); Caged – Le prede umane (1992) AIDS – La ragnatela del silenzio (1993)

Regie Televisive-documentaristiche

Per conoscere Pasolini (1978); Ritratti di città – Benvenuti a Trieste (1978); Terre argillose: nuove frontiere (1980) – cortometraggio; Viaggio al paese dei Tarahumara (1983); Tripoli bel suol d’amore (1984); Le memorie di un bosco (1986) – cortometraggio; Sulle orme di Bottego (1989) – cortometraggio; L’Etiopia di Bottego (1989) – cortometraggio.

Sceneggiature

I cinque della vendetta (Aldo Florio, 1966); Deserto di fuoco (Renzo Merusi, 1971); La sposina (Sergio Bergonzelli, 1976); Taxi love – Servizio per signora (Sergio Bergonzelli, 1976); Porco mondo (Sergio Bergonzelli, 1978); Nosferatu a Venezia (Augusto Caminito, 1989); Impudicizia (Pasquale Fanetti, 1991); La strana voglia (Pasquale Fanetti, 1991)

NOTE

(1) La bionda Mary ‘O, nel film di Lucchetti alla sua prima e unica esperienza cinematografica, aveva esilmente tentato di sfondare nel mercato discografico, dapprima nella musica leggera con il singolo Mangiarti, mangiarti/Occhi arditi e blu (Roma, Hovers Records, 1983) e successivamente nel ginepraio della musica per infanti con le bizzarre ballate Befana robot/ Girotondo universale, su solco per la milanese Duck Record in quello stesso 1983. (2) Difatti, almeno una parte del girato proposto nel film (specificamente molti dei minuti con Harrison Muller in azione) proviene da una precedente produzione Spagnuolo ovvero Razza violenta (1984) di Fernando Di Leo. (3) Sebbene Lucchetti ricordi del proprio accredito, a sua detta improprio, in almeno un titolo della filmografia di Fanetti, in realtà il suo nome compare non solo in due pellicole del tuttofare romano ma anche sul frontespizio di una sceneggiatura depositata presso la biblioteca del Centro Sperimentale di Cinematografia, intitolata Il cuore oltre l’ostacolo – Chiunque cade può risorgere: anche anche gli atleti hanno un cuore (1990) ascritta, oltre che ai già citati Lucchetti e Fanetti, al produttore Gianluca Curti, con produzione intestata alla New Pentax Film, progetto a cui Lucchetti si ritiene completamente estraneo. Per dovere di completezza, si citano comunque nella filmografia del regista anche i due titoli la cui paternità in sceneggiatura è in discussione.