Sulle orme di Luigi Bazzoni

Un regista meditatamente schizofrenico
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Non ce ne frega un cazzo (si può scrivere?) di dimostrare che il cinema di Luigi Bazzoni sia un cinema “figo”, come va di moda in questi tempi di allegre rivalutazioni, sebbene ogni rivalutazione critica non implichi connotazioni necessariamente positive. O meglio: sarebbe molto facile definire Bazzoni una “mosca bianca” nel panorama cinematografico italiano di genere, a cavallo tra i Sessanta ed i Settanta, per originalità, stile, cultura e, infine, culto. Perché, in fin dei conti, Bazzoni lo è un po’ speciale, di quella setta (fantastica parola, questa, che racchiude in sé contemporaneamente il seguire e il secare, in tempi in cui le si preferisce il più edulcorato ed ipocrita “movimento”) ormai non più segreta, di artigiani ondeggianti sul crinale sottilissimo tra autorialità e genuino mestiere. Veniamo subito al punto: nell’universo bazzoniano il protagonista è un disadattato che, di volta in volta, assume le sembianze di un essere neutro che si sposta in labirinti mentali caldi e decadenti, tra luoghi fisici in disarmo: questo è il punto di partenza, granitico e necessario, per capire il perimetro in cui ci stiamo muovendo. Bazzoni dirige cinque film e, parecchio tempo dopo, partecipa all’operazione scientifico-cinematografica di Roma Imago Urbis. Ebbene, ognuno di questi film è una contraddizione in termini del contesto nel quale è generato: La donna del lago è un thriller in cui è predominante l’introspezione del protagonista-osservatore, L’uomo, l’orgoglio, la vendetta un melodramma rivestito da pseudo-western, Giornata nera per l’ariete un giallo in cui l’ultima cosa che conta è l’ingranaggio della trama, l’introvabile Blu Gang e vissero per sempre felici e ammazzati un’altro western atipico e molto poco “spaghetti” e Le orme un oggetto cinematografico non identificato.

Questo per definire bene quella caratteristica di instabilità che sta alla base del disegno cinematografico di Luigi Bazzoni. E dicevamo dei protagonisti: raramente come in Bazzoni essi sono baricentro e peso specifico assoluto del film: l’instabilità sociale che li caratterizza (taglio netto col passato come nel prologo di La donna del lago, perdita del proprio status militare in L’uomo, l’orgoglio, la vendetta piuttosto che perdita del lavoro in Le orme o del diritto/dovere di eseguirlo sino in fondo come in Giornata nera per l’ariete) unita a una situazione affettiva precaria (mancanza di rapporti stabili, niente famiglia o figli, o concreti rapporti di amicizia, solitudine) sono specchio di una ben più profonda instabilità mentale che aleggia in maniera qui evidente qui suggerita: «Josè perché vuoi illuderti? Rovinarti per una sudicia prostituta? La tua è una malattia…»  chiosa uno dei banditi all’irremovibile Nero di L’uomo, l’orgoglio, la vendetta poco prima del finale, in cui l’ex sergente verrà su di una spiaggia inseguito e “annullato” come pochi anni dopo la Florinda Bolkan nel suggestivo Le orme. E il risentimento verso il padre, i problemi d’alcolismo di Andrea in Giornata nera per l’ariete, sintomo di disagio esistenziale, uniti alle esternazioni finali di Bernard nel film d’esordio, un’unico grande pensiero ossessivo («Si, tutto restava incomprensibile…«), concorrono a costruire un’idea di storia in cui assi cardinali sono la precarietà e l’irrazionalità e i principali strumenti del linguaggio filmico diventano i sogni, le visioni, le fotografie, le suggestioni, le amnesie, padroni totali di un contesto assente, neutro come i personaggi che lo sfruttano e che sembrano elementi di un colossale noir psicologico alla Siodmak.

In quest’ottica sarebbe opportuno approfondire i rapporti e le influenze tra Bazzoni e Mauro Bolognini, e Mario Fenelli, e Suso Cecchi d’Amico, e Vittorio Storaro, e il fratello Camillo (andate a rimestare il vostro archivio e a rileggere il bellissimo ricordo che ne fa Francesco Barilli sul n.116 di Nocturno, poco dopo la sua morte nel 2012), per capire come il pensiero e la poetica di Luigi Bazzoni si immergano tra bianchi e neri e viraggi di colore, atmosfere Liberty e architettura industriale, design moderno e minimale e paesaggi autunnali, suggestioni dechirichiane e scorci alla Sironi, caldo decadentismo bologniniano e alterazioni fisico-mentali precursori di certo Cronenberg (l’identità incerta, il tema del doppio [ancora Siodmak e prima di De Palma], il viaggio mentale, la malattia, in Le orme). E il “processo di spersonalizzazione” di Blackmann? E il ritorno in luoghi già vissuti, come gli alberghi? E l’essere sempre “fuori stagione”, come sul lago, come a Garma? La Bolkan è una traduttrice – trans-ducere, condurre oltre, che è poi il fine ultimo del cinema di Bazzoni che, attraverso l’alternanza di suggestioni differenti, mette in scena l’alternanza di differenti stati psichici, fisici, morali. Vissuti o, meglio, subìti. La macchina da presa impazzisce: soggettiva e carrello, dettaglio e movimenti circolari, campi lunghi e grandangolo; il tutto messo a bagnomaria dentro secchi di Talofen ché Bazzoni non possiede l’irrazionalità sfrenata di un puro, ma la meditata schizofrenia di un paziente sottocura da anni, che è stato indotto a convivere con le proprie alterazioni. Bazzoni è da riscoprire perché trasposizione di un’autorialità bologniniana, per forza di cose, ma anche antonioniana per certi versi, secondo gli schemi dei generi, attraverso un’apertura netta e sorvegliata nel muro di cinta tra cinema d’autore e cinema popolare che, se ancora ha un senso nell’essere eretto (e forse non ce l’ha, rendendo meglio l’idea una barriera in metallo liquido), trova in Bazzoni un’intellettuale autorizzato, coi documenti in regola, piuttosto che un fuggiasco disorganizzato o un astuto ideatore di tunnel.