Frankenstein e la variante comica

Ricordando Gene Wilder e Frankenstein Junior

Tra gli infiniti rivoli scaturiti dalla storia maledetta del dottor Frankenstein e della sua creatura non poteva mancare la variante comica, che spesso e volentieri si accosta alla parodia, non tanto del testo originario di Mary Shelley quanto della traduzione, con tanto di tradimento, del Frankenstein di James Whale. Quest’ultimo, d’altronde, è un prototipo da manuale della parodia: contiene elementi archetipici facilmente riconoscibili (tra gli altri, lo scienziato pazzo, il mostro senza senno), ed è una storia conosciuta da un ampio pubblico, dato il suo successo. Inoltre, la parodia è spesso lo stadio terminale, il colpo di coda finale di un genere o di filone, l’estremo tentativo di tenerlo in vita riproponendone stereotipi e situazioni conosciute con la novità della risata. Come naturale terminazione dell’era d’oro dei classici dell’orrore della Universal, giunti ormai alla frutta con i cross-over dei vari personaggi, arriva quindi un ciclo comico. Dopo Al di là del mistero e La casa degli orrori, i tre mostri più famosi della scuderia Universal, Dracula, l’Uomo Lupo e la creatura di Frankenstein si incontrano di nuovo, stavolta incrociando le strade del duo comico Abbot e Costello (Gianni e Pinotto della vulgata italiana), nel seguito Il cervello di Frankenstein (Abbott and Costello meet Frankenstein, 1948). Invero qui la parodia, più che il film di Whale, investe proprio La casa degli orrori e contrariamente al franchise che si svilupperà sull’onda del successo, dove incontreranno anche l’uomo invisibile e la mummia, l’elemento comico è inserito a forza in un contesto serio. Il contesto è il piano diabolico del conte Dracula di attirare con l’inganno Pinotto, adescandolo con le grazie di una sua adepta, per sottrargli il labile cervello e trapiantarlo nella creatura di Frankenstein, in modo da renderla più facilmente suggestionabile dal suo potere ipnotico. L’elemento ridanciano è appannaggio esclusivo del duo Gianni e Pinotto, con gag che mai scalfiscono l’immagine dei mostri sacri. Si conferma anche qui la tendenza, iniziata dal prototipo di Whale, di identificare Frankenstein con l’artefatto, piuttosto che con l’artefice. Il titolo originale risulta, di fatto, ingannevole, perché Abbott e Costello non incontrano nessun Frankenstein. La creatura mantiene unicamente i suoi caratteri essenziali, quelli della forza bruta e della stupidità, che però fanno buon gioco all’interno di un contesto leggero.

Bisogna attendere altresì un quarto di secolo, dove la storia di Mary Shelley riacquista vigore e successo grazie ai revival in technicolor della Hammer, per poter dare all’interno del lato comico e parodico un maggior spazio anche al dottor Frankenstein, pur a scapito del suo frutto malato. Con una rilettura non banale, il piccolo Dr. Frankenstein on Campus (Flick, 1970) segue le vicende di un giovane discendente del folle scienziato che studia all’università di medicina, non senza lo scherno dei colleghi, un metodo per affinare la sua invenzione, un meccanismo che gli dà accesso al controllo totale della mente. In un periodo di manifestazioni studentesche, di figli dei fiori e di discoteche, la morale della storia di Frankenstein ben si integra nella lotta tra la libertà individuale tipica degli anni post-’68 e il delirio di onnipotenza della scienza che vuole pilotare l’arbitrio, rendendolo un puro mezzo. La creatura sembra totalmente scomparsa, al centro c’è solo lo scienziato che usa la propria scoperta per imbastire una serie di omicidi per mano terza, fin quando nel colpo di scena finale l’identità perfetta tra il dottor Frankenstein e la propria creatura si svela. A riportare l’equilibrio tra le due figure ci pensano qualche anno dopo Mel Brooks e Gene Wilder con Frankenstein Junior (Young Frankenstein, 1974). Al netto della rilevanza del film all’interno della storia del cinema comico e della parodia, Frankenstein Junior ha il merito di aver fissato definitivamente i tormentoni e aver svelato tutti gli aspetti comici del prototipo di Whale, di cui mimetizza le scenografie (il laboratorio è lo stesso) e lo stile espressionista. Il protagonista assoluto è il mad doctor, Federick Frankenstin, discendente suo malgrado del folle Victor di cui disconosce il legame persino nel cognome, fin quando non ne eredita il castello in Transilvania e non coglie l’occasione di continuare con successo i suoi esperimenti, culminati nella creazione di un enorme essere dal cervello abnorme (gag ripresa dal Frankenstein di Whale e ricorrente nelle parodie future), che però, e qui sta uno dei grandi colpi di genio di Brooks e Wilder, ha il dono di uno proporzionato “Schwanzstück”, elemento che introduce solennemente e lievemente la trivialità nei Frankenstein comici.

E quando si parla di commedia ed erotismo, l’Italia sale in cattedra: il successo di pubblico del film di Brooks non lascia indifferenti i produttori italiani e in particolare Filiberto Bandini, che appronta di fretta e furia una versione tricolore, Frankenstein all’italiana (1975), facendolo dirigere ad Armando Crispino, reduce dal successo di L’etrusco uccide ancora e Macchie solari, che con Bandini stava lavorando ad alcuni spot pubblicitari. Il film si rivela un sonoro flop, a causa di una distribuzione avara e delle responsabilità di un regista che non ha nelle proprie corde una certa comicità. La storia, d’altronde, non fa altro che prendere di peso la gag della creatura super-dotata di Brooks e stirarla nell’arco di un lungometraggio. Il mostro – Aldo Maccione tinto di bianco – approfitta del mancato matrimonio tra il suo creatore e la virginale Jenny Tamburi per farsi tutte le donne del maniero, compresa Anna Mazzamauro e Lorenza Guerrieri, e far loro cantare l’Alleluja. Il grande cast (ci sono anche Ninetto Davoli e Alvaro Vitali) non salva il film e affossa la carriera di Crispino. Va però detto che il barone Frankenstein di Gianrico Tedeschi ha una prorompenza farsesca da rivalutare e il finale castratorio, con creatore e creatura mondati della loro sessualità a tutto vantaggio di Igor/Davoli, rimasto unico gallo nel pollaio, strappa qualche sorriso. Per il resto il film rimane legato a un immaginario pecoreccio post-decamerotico in cui l’accento viene posto sulla possenza fisica della creatura e sugli annessi e connessi comici.

Da questa facile tentazione non si sottrae neanche il semi-amatoriale Lo strano caso del dott. Frankenstein (Frankenstein General Hospital, 1988), il quale introduce la solita gag dello “Schwanzstück” con tanto di tenda sotto il lenzuolo e copia spudoratamente altre trovate dal classico di Mel Brooks. Il film di Deborah Roberts è interamente ambientato in un ospedale in cui la malasanità regna sovrana, tra medici incompetenti e dottoresse in autoreggenti. Facile in un luogo così per uno scienziato procurarsi organi e parti umane per poter assemblare la propria creatura, ma come al solito l’assistente imbranato ruba il cervello di un minorato mentale piuttosto che quello di un premio nobel, con le conseguenze del caso. Se il film di Brooks è il referente immediato, con tanto di fotografia in b/n nelle sequenze ambientate nel laboratorio sotterraneo, introdotte da didascalie tipiche del cinema muto (sic!), e il tormentone (lì il nitrito dei cavalli al suono di Frau Blucher, qui le risate da sit-com a seguire la frase “il mio esperimento segreto”), l’unica trovata degna di nota è il look eighties della creatura, con chiodo di pelle, cresta sui capelli e stereo sulla spalla. Inutile dire che grazie alle sue “doti amorose” la creatura conquista il frutto e il cuore della prosperosa psicologa della clinica, sposandosi e avviando persino un’attività.

Non è impossibile comunque trovare una commedia sul soggetto di Mary Shelley che tratti la sessualità della creatura anche al di fuori della facile battuta sul pisello: basti vedere il gioiellino di Alain Jessua Frankenstein 90 (1984), che elabora sapientemente lo spunto alla base di La moglie di Frankenstein di Whale, ovvero il bisogno umano della creatura di avere un’anima gemella. Nel film di Jessua il solito erede dei Frankenstein riesce a riportare in vita un cadavere ricomposto grazie a un impianto che gli permette di controllare i ricordi. La creatura, nonostante le prime difficoltà, si comporta come una persona qualsiasi: guida la macchina, impara il bon ton e a non mangiare con le mani. Il problema, ovviamente, sono la tendenza all’omicidio e il sesso, perché si innamora della moglie del suo creatore stuprandola in un bosco. A quel punto è chiara l’esigenza di una compagna, a cui lo scienziato provvede assemblando la bellissima Adelaide (una statuaria Herma Vos). La felicità percorre però strane vie: il mostro viene braccato dalla polizia, mentre avviene un incrocio imprevedibile tra Frank, la creatura, e la moglie dello scienziato, sempre più affascinata dalla sua umanità, mentre lo scienziato si consola tra le braccia di Adelaide. Il succo della storia, geniale, è che Frank diventa il capo di una azienda che produce cadaveri senzienti in grado di fare mansioni domestiche secondo le direttive del suo artefice. Frankenstein 90 è innovativo non solo nel rappresentare una creatura dotata di raziocinio e di buone maniere e costruirci sopra delle gag bizzarre, ma anche nel mettere in scena una creatura come Adelaide, creata per soddisfare i bisogni dell’altra creatura, trasfigurazione malsana del mito della genesi di Adamo ed Eva, e trasformatasi subito nell’oggetto del piacere del proprio creatore.

Se Frank Henenlotter avesse in mente il film di Jessua nella produzione della sua personalissima rilettura del mito di Frankenstein non si sa, ma le similitudini ci sono. Così come nel film di Jessua, anche in Frankenhooker (1990) Jeffrey, un elettricista con grandi competenze in medicina, assembla il corpo di una donna perfetta dopo aver fatto una selezione felliniana delle parti migliori di una schiera di prostitute (“hooker” in inglese è la battona), per poter riportare in vita la ragazza morta in un tragico incidente. Qui però le conseguenze sono imprevedibili, perché il super-crack usato per stordire e far esplodere le prostitute in pezzi pronti per l’assemblaggio rimane all’interno della creatura, la quale possiede non solo la coscienza della ragazza di Jeffrey, ma anche l’anima delle singole battone che la compongono. Questo dettaglio, interessante dal punto di vista filosofico, è in realtà fonte di molte situazioni esilaranti e splatter, perché la Frankenhooker continua a fare il suo lavoro per strada, ma a ogni atto sessuale fuoriesce dai suoi orifizi la sostanza malsana. Quando nel finale Jeffrey sistema tutto, arriva la sua morte e resurrezione, per contrappasso, con un corpo femminile, metafora del rovesciamento del rapporto tra uomo e donna, tra Dio e uomo ma soprattutto affermazione di superiorità dell’artefatto sull’artefice, almeno nel mondo cinematografico.