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La fiera delle illusioni – Nightmare Alley

2021
Titolo Originale:
Nightmare Alley
REGIA:
Guillermo del Toro
CAST:
Bradley Cooper (Stanton "Stan" Carlisle)
Cate Blanchett (Lilith Ritter)
Toni Collette (Zeena Krumbein)

Il nostro giudizio

La fiera delle illusioni – Nightmare Alley è un film del 2021, diretto da Guillermo del Toro.

Con Nightmare Alley si apre ufficialmente una nuova fase nella filmografia di Guillermo del Toro, e ripensare il ruolo del suo cinema pare a questo punto obbligatorio. Con riserve o meno, si parla ormai di un gigante del cinema americano, autore-marchio onnipotente e premiato. La definitiva esplosione mainstream del messicano mette in crisi le categorie con cui si è soliti affrontare lo sdoganamento di un ex autore “per pochi” (cosa che, comunque, non è mai stato). La vulgata popolare che vuole nel riconoscimento dell’Academy il sintomo di una svendita e della morte creativa, con del Toro fa fatica ad applicarsi. Uno, perché l’autore del Labirinto del fauno, in fondo, “commerciale” lo è sempre stato: come per il suo fratello maggiore Tim Burton, la singolare poetica del regista è da sempre radicata nella dimensione industriale dell’intrattenimento di massa, i cui canoni strutturali ha sempre religiosamente rispettato (tra La fiera delle illusioni e La spina del diavolo, la differenza è al massimo quantitativa). E due, perché a differenza di Burton, la superiorità dell’ultimo del Toro sul primo è manifesta. Il messicano cresce, matura. E fa film sempre  migliori: con Nightmare Alley, scopre definitivamente un cinema adulto precedentemente mai affrontato – e che gli porterà via qualche fan. Il costo di alzare l’asticella.

L’irruzione sorprendente dell’erotismo in La forma dell’acqua era un segnale: da due film, il mondo di del Toro è diventato quello reale. La trattazione fiabesca e infantile che i primi lavori riservavano alla Storia spagnola, diviene in Nightmare Alley un raffinato sottotesto che alimenta anziché sostituire il racconto principale: “trionfo” boschiano della Depressione (la fame, l’ambizione, la spietatezza dei disperati), feroce metafora Gatsby-ana della nascente borghesia americana – e persino allegoria del cinema, di Hollywood, supermercato di illusioni ai danni di una classe operaia ignorante e condannata. Circo, illusionismo, psicanalisi e cinematografo – quattro macchine di rappresentazione convergenti, la cui parentela battezzata ai tempi di Mélies si celebra nel film più complesso del regista, che punta ora a fari spenti al cuore del più nero cinema USA. Tra gli anni ’30 e ’40, i primi registi europei espatriati a Los Angeles ibridarono il gangster movie americano con le inquiete suggestioni dell’espressionismo, della psicanalisi e dell’esistenzialismo. Guillermo del Toro riparte da lì, dal Noir, in un lavoro volto alla mimesi, recupero e aggiornamento dei suoi quattro elementi costituenti. A sintetizzarli, la parabola di dannazione edipica di Stanton/Cooper, straniero senza passato e con molta ambizione nel Midwest straccione delle dustbowl e delle migrazioni. Armato di sorrisone al veleno e sguardo attento, eccitato dalla manipolazione (del prossimo, dunque del destino) ancor più che dalla prospettiva di ricchezza, si farà strada dal deprimente circo di Willem Dafoe (con i freaks più brutti e meno empatici a memoria recente), fino all’alta società di Chicago – lastricandosi la via per l’inferno una sanguinosa macchinazione dopo l’altra.

Il fatalismo è il sentimento che sottintende le principali espressioni del film noir, e ogni sequenza di Nightmare Alley delinea l’ineluttabilità del destino che il protagonista va scrivendosi. L’apparentemente disorganica struttura in due atti gronda di parallelismi interni, rimandi, situazioni ripetute. Un piano simbolico volutamente soffocante che chiude ogni punto di fuga, imprigionando la pulsione divoratrice di Stanton in una sorta di parabola biblica: tre tappe scandite da altrettanti rituali di sangue freudiani, tre figure di potere maschile contro cui rivolgere la furia del figlio. “E’ tutto così metaforico!”, commentavano i Kim di Parasite – “Il simbolismo è fin troppo evidente” nota di rimando la femme fatale Lilith/Blanchett (a proposito di oscuri presagi…): è un cinema consapevole, quindi compiaciuto, sornione più che passionale, ma non per questo meno intenso. Anzi, proprio il distacco giocoso dell’autore separa il film dal moraleggiare nichilista che ammorba le incarnazioni moderne del genere (chi ha detto Fargo?), in favore di un tono da vaudeville infernale, cautionary tale da fiera paesana per i dannati della terra. In fuga fin dal prologo dal grigio realismo sociale steinbeckiano, Nightmare Alley incappa nel tendone a strisce (“House of Perdition!”) quasi per sbaglio, non uscendone più. Per del Toro, neanche il rigore del noir classico può prescindere dall’amata estetica da lunapark; ma proprio dove il vecchio Burton perse il proprio sguardo per mai più ritrovarlo, il barocchismo digitale non fa che che alimentare la visione del messicano, la sua ricerca del trucco analogico, del prestigio sorprendente. Si erge quindi un film-leviatano claudicante, scomposto, che soffre al montaggio (pare mancare più di una sequenza) e che non poteva che alienarsi il grande pubblico. Ma è il miglior blockbuster adulto che si possa chiedere: quanti ne sono rimasti ormai?