I Vent’anni di Velvet Goldmine

La Ballata di Maxwell Demon

«C’era una volta una terra sconosciuta, colma di fiori strani e di profumi delicati, una terra che a sognarla dà gioia immensa… Una terra dove tutte le cose sono perfette… e velenose.»

Il 22 maggio del 1998, Velvet Goldmine veniva proiettato come anteprima in quel del festival di Cannes, vincendo anche, nella medesima occasione, un premio come miglior contributo artistico. Il film non avrebbe mai attirato a sé grosse fette di pubblico (4,3 milioni di incasso a fronte dei 9 impiegati per la realizzazione), ma si sarebbe con tutto ciò imposto quasi istantaneamente come pellicola cult, e questo non soltanto grazie all’ardore manifestato per parte di amanti e nostalgici della golden age glitterata, ma anche per merito di un pubblico più giovane, che proprio grazie al lavoro svolto dal regista britannico Todd Haynes avrebbe imparato ad amare il linguaggio di un passato mai veramente sopito. Definire Velvet Goldmine come un semplice racconto di celluloide sul glam rock sarebbe nondimeno riduttivo. Il film prende senza dubbio in esame tutto l’universo di cui sopra, ma lo fa trattando la materia, oltre che in modo erudito, come fosse una vera e propria filosofia di vita, piuttosto che un genere musicale a sé stante. Il mondo del glam raccontato da Haynes è un mondo mitizzato, portato intenzionalmente all’estremo, piacevolmente ai limiti del kitsch e del farsesco. Dai costumi di scena – esageratamente stravaganti – alle ambientazioni, sorrette da uno splendido lavoro di fotografia. Per mettere in scena tutto questo sfarzoso spettacolo, Haynes prende a prestito, tributandone l’assoluto rilievo, l’ascesa e il tramonto di Ziggy Stardust, l’alter ego più popolare di David Bowie (grazie al quale, nel 1972, l’allora venticinquenne nato a Brixton, Londra, si sarebbe consacrato al vero successo di pubblico), per raccontare la figura problematica della scintillante glitter-rockstar Brian Slade, alias Maxwell Demon, interpretato da un eccelso Jonathan Rhys Meyers, attore irlandese allora appena ventenne. Nel film Slade, esausto e depresso, non vede altra soluzione se non quella di disfarsi della sua maschera da palcoscenico e quindi del suo status di celebrità, simulando la propria morte durante un ultimo concerto. Un rimando che è poi una rappresentazione traslata di quello che era stato per davvero l’addio ai fan promulgato da David Bowie in chiusura alla sua data londinese all’Hammersmith Odeon, quella del 3 luglio 1973, poi trasformata in un memorabile rockumentary intitolato semplicemente Ziggy Stardust And The Spiders From Mars dal regista D. A. Pennebaker. Bowie e i suoi fedeli Ragni da Marte (allusione dichiarata, tra l’altro, al famoso caso di avvistamento ufo allo stadio di Firenze del 1954) che sarebbero rimasti presto orfani del proprio band-leader, erano ormai reduci da ben 191 date dello Ziggy Stardust/Aladdin Sane Tour, distribuite in un solo anno e mezzo tra Regno Unito, Nord America e Giappone.

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Haynes, a dispetto di tutto ciò, evita la facile formula del biopic scegliendo una più intricata narrazione a inchiesta, sulla falsariga di quel Quarto Potere di Orson Welles che negli anni è stato spesso additato dai critici, forse un po’ esageratamente, come «il film più splendido di tutti i tempi». Velvet Goldmine, se ci è concesso dirlo, è un viaggio vellutato e spazio-temporale che comincia, dopo il veloce passaggio di un luminoso oggetto a forma discoidale, con il ritrovamento di un pargolo nei vicoli bui e silenti di una Dublino del 1854. L’infante in questione altri non è che Oscar Wilde, personaggio che Haynes immagina come un essere venuto da chissà quale pianeta e che soprattutto è visto dal regista come il primo idolo pop ad essere apparso sulla terra. «Le storie… sono quel che resta degli imperi; tutto ciò che si è dimenticato rimane… negli oscuri sogni del passato, e minaccia costantemente di riemergere», enuncia la voce narrante durante quelle prime immagini. Cento anni dopo, l’eredità dandy di Wilde viene presa in consegna da un certo Jack Fairy, uno dei «prescelti, come portatori di un grande dono», come spiega nel film, attraverso cui dovrebbe essere avvenuto, rimanendo sempre nel contesto della finzione, il big bang del più moderno glam rock. Fairy sarebbe quindi l’iniziatore (forse un accenno alla figura del primo Brian Eno?), il precursore del tutto, Slade un più semplice messaggero di quella scintillante verità fatta di lustrini. Il racconto si sposta quindi in una New York del 1984, dai toni freddi e distopici, in cui un giornalista di origini britanniche, Arthur Stuart, viene chiamato a indagare sul trapasso fittizio e sulla conseguente scomparsa di Slade, dato che nei giorni dell’adolescenza, quando viveva ancora in Inghilterra, egli ne era stato un fan accanito. Stuart è il valido Christian Bale, che agli albori del 2000 si trasformerà in Patrick Bateman, il serial killer yuppie ossessionato da fissazioni estetiche di American Psycho. Dopo aver rintracciato la prima moglie di Brian, la malinconica Mandy (personaggio impersonato dall’affascinante Toni Collette e costruito sulla figura di Angie Bowie, ex consorte del Duca Bianco), Stuart ripercorrerà un passato che lo intrecciava all’ex amante di Slade, Curt Wilde (altro palese rimando all’autore de Il Ritratto di Dorian Gray). Wilde è il simulacro di Iggy Pop, affidato alle cure di un fenomenale Ewan McGregor, ancora reduce dal mastodontico successo di Trainspotting. Anche se Wilde, oltre a ricalcare le orme del suo archetipo rimanda anche a un giovane Mick Ronson, già chitarrista dei già citati Spiders From Mars (Venus In Furs, nella finzione) e al contempo fa riecheggiare la figura di Kurt Cobain, in particolare per quella tipica mestizia annessa alla personalità di quest’ultimo.

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Il film, che resta a tutt’oggi, dopo vent’anni, un’opera visiva eccelsa, non avrebbe mai trovato il benestare di David Bowie. Fin dalla sua prima gestazione, infatti, egli aveva disapprovato aspramente la sceneggiatura, non avendo per nulla gradito gli eccessivi riferimenti omosessuali a lui indirettamente attribuiti. Haynes, in realtà, non aveva fatto altro che romanzare tutti quei racconti (tradotto: gossip) che solevano circolare nella prima metà degli anni Settanta e che narravano di un Bowie amante sia di Iggy Pop sia di Lou Reed (e parallelamente, secondo altre voci, anche di Mick Jagger). La questione omoerotica che lo avrebbe riguardato, però, non fu mai veramente convalidata dallo stesso; egli si era spesso contraddetto al riguardo, delegando il tutto a una sciocca pensata sensazionalistica del suo allora manager speculatore Tony De Fries (qui reso brillantemente da Eddie Izzard, che qualcuno ricorderà nella serie Hannibal nei panni dello psichiatra psichiatrico dottor Gideon). Un arcano androgino, nonostante tutto quel minimizzare, di cui avrebbero certamente fatto tesoro altri “prescelti”, cui in epoche diverse sarebbe toccato il compito di fare proprio il verbo del glam. Pensiamo, in questo senso, a un personaggio come Brett Anderson degli Suede, che nell’intento di vendere una certa immagine di sé, a inizi carriera, dichiarò: «Sono come un omosessuale che non ha mai avuto un’esperienza omosessuale», frase poi sublimata anche dal leader dei Placebo Brian Molko, protagonista in Velvet Goldmine (assieme con l’allora compagno di band Steve Hewitt) di un glammissimo cameo in cui i due interpretano il classico 20th Century Boy dei T-Rex, poi incluso nell’immortale, superba, colonna sonora del film. Tra ottime rivisitazioni del passato e pezzi originali, che vanno dagli Stooges a Lou Reed, dai New York Dolls ai Roxy Music, fino ad arrivare ai Pulp (la loro We Are The Boyz sembra uscita direttamente dal periodo glitter), qui non c’è nemmeno l’ombra di un qualsivoglia brano della compianta black star, avendo Bowie negato ad Haynes ogni utilizzo della sua musica. E meno male che almeno sul titolo della pellicola, che è lo stesso di una b-side incisa nel periodo Ziggy Stardust, non ebbe a che ridire.
«Brian, perché usi il trucco?» chiede a Slade un giornalista. Risposta: «Perché? Perché il rock è una prostituta, quindi deve prostituirsi, va esibita».