Io Capitano, Seydou e la sua fata morgana

Due candidi che navigano in un mondo di mostri. Nel cuore dell'opera di Matteo Garrone, candidata all'Oscar come Migliore film internazionale
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Una delle cose interessanti della corsa agli Oscar 2024 per il miglior lungometraggio internazionale è che tre dei cinque film nominati (Io capitano, Perfect Days di Wim Wenders, La società della neve di Juan Antonio Bayona, La sala professori di İlker Çatak, La zona d’interesse Jonathan Glazer) sono di cineasti che lavorano con culture e lingue diverse dalla loro. In Perfect Days, il regista tedesco Wim Wenders racconta la storia delicatamente stravagante di un uomo che pulisce i bagni pubblici a Tokyo. In The Zone of Interest, Jonathan Glazer, inglese, ci immerge nell’agghiacciante realtà quotidiana di una famiglia nazista nella Polonia occupata dai tedeschi negli anni ‘40. Il terzo film è Io capitano, diretto da Matteo Garrone che gira il film quasi interamente in Marocco, con la direzione della fotografia di Paolo Carnera, in grado di catturare tutto con un’immediatezza sorprendente e coinvolgente.

Racconta la storia di Seydou, un sedicenne che lascia la sua casa in Senegal in cerca di una vita migliore in Europa. Inizia nella città di Dakar, dove Seydou, interpretato da un fantastico Seydou Sarr che porta l’intero film sulle proprie spalle, inchiodando lo spettatore con il suo primo piano finale, dilaniante, descrivendo una ribollente confluenza di emozioni, vive con madre e sorelle. La vita non è facile, i soldi scarseggiano, ma non è triste. Io capitano si apre con la vitale scena iniziale in cui il ragazzo suona mentre la madre balla, davanti a una folla e osserva le sorelle che provano parrucche, intrecciano i capelli e mettono lo smalto. Seydou però sogna da tempo una nuova vita e lavora per questo – hanno messo da parte i soldi guadagnati nel settore edile per assicurarsi di poter partire. Nonostante le proteste della madre sui pericoli che lo attendono – pochi di quelli che partono per la traversata possono raccontarlo – desidera vedere il mondo, guadagnare di più per sostenere la famiglia ma la verità è che vuole diventare un cantante. Non è dunque l’infelicità a spingere lui e suo cugino Moussa (Moustapha Fall) a lasciare le loro case, ma il desiderio di avventura. “L’Europa ci sta aspettando”, il cugino Moussa assicura Seydou, “i bianchi ti chiederanno l’autografo” continua. Due adolescenti, con grandi sogni, irrealistici forse, ma comunque sogni.

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Il viaggio è fatto a tappe, prima il Mali, poi il deserto, fino alla Libia. Dopo le infinite dune di sabbia arrivano i ribelli libici con le armi e i crudeli metodi di tortura. Matteo Garrone mostra l’esperienza del rifugiato, tortuosa, traumatizzante ma non cade mai nell’esasperazione del dolore. Un ulteriore strappo tocca Seydou, viene separato da Moussa e venduto come schiavo a una ricca famiglia libica che chiede a lui e a un collega più anziano di costruire un muro attorno alla loro villa. Come ricompensa per il lavoro, possono proseguire il viaggio fino a Tripoli ma Seydou non può partire da solo, deve ritrovare Moussa, glielo deve, quindi cerca suo cugino dappertutto. Garrone è da sempre narratore di speranze e aspirazioni disilluse e distrutte, inquadra i più giovani che guardano il mondo con immense aspettative ma crollano miseramente. In Gomorra (2008), due giovani napoletani aspirano a emulare i mafiosi che hanno visto ritratti nei gangster movie americani. In Pinocchio (2019), il ragazzo di legno si unisce a una carovana di bambini diretti verso un mitico Paese dei balocchi che poi prendono le sembianze di disavventure. Sono ragazzi con gli occhi spalancati che osano sognare perché la gioventù ha l’arroganza di sfidare schemi, regole, imposizioni ed è questa la caratteristica che i suoi ragazzi possiedono. Io capitano racconta ancora questo tema con Seydou e Moussa che mirano a raggiungere le coste d’Europa, qui Garrone non esplora l’Italia dal di dentro ma attraverso chi sogna quella terra come destinazione, cambia punto di vista con una sorta di controcampo – come lo definisce il regista -, rispetto a ciò che si è abituati a vedere, narrando il prima.

Io capitano è un romanzo di formazione che non può non commuovere per la sua forza dirompente. La sceneggiatura italiana, fatta di documentazione e di racconto di tutti quei Seydou che hanno lasciato tutto alla volta di una “terra promessa”, scritta assieme a Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, che mescola mondi, personaggi, luoghi e atmosfere, è stata tradotta in francese e poi trasmessa oralmente al cast in wolof, la lingua più parlata in Senegal, rende vividamente la bellezza romantica del deserto e il costo umano di questo viaggio. Bruciante di ambizione ed eccitazione pur conservando la puerile ingenuità anche nelle situazioni più estreme, Seydou intraprende un viaggio non solo fisico ma anche spirituale, di crescita, da ragazzo, giovane e ingenuo, a uomo pronto a prendersi anche responsabilità non sue. Io capitano è straziante ma è anche una fiaba, il peregrinare di Seydou e Moussa somiglia a quello di Pinocchio: il ragazzo di legno di Carlo Collodi è come il protagonista del film, non si rompe facilmente. Lungo i giorni che portano alla meta, ci sono tradimenti verso chi si ama, mondi nuovi da scoprire, dolorose cadute, insopportabili sconfitte, balene da “sventrare”, piccoli trionfi e calorose gentilezze che danno all’eroe la forza per andare avanti.

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Io capitano è una storia intrisa di dolore e paura, gioia e euforia. La violenza, le difficoltà estreme sono elementi necessari, non si tratta di una scelta estetica e neppure di una forza trainante ma della durezza della verità. Quando la loro odissea si fa insopportabile, il realismo magico rende tollerabile e perfino lirica la tragedia (dis)umana. Garrone è un regista irregolare nella sua cinematografia ma dotato, con un occhio interessante e la capacità di usare sia il realismo crudo che la fantasia surreale. Ha raggiunto il successo a livello internazionale con Gomorra, poi, nel 2015, ha realizzato Il racconto dei racconti, un compendio di storie fantastiche e spaventose, grottesche e macabre. Io capitano sta a metà, è un ritratto estenuante del viaggio di un migrante e anche epico del calvario di un eroe. In una sequenza audace e onirica, Seydou, mentre cerca di aiutare, dimostrando la propria compassione, una donna, crollata per la stanchezza nel deserto, la immagina, grazie al suo cuore ingenuo, levitare magicamente. Brilla l’abito verde della donna sulla sabbia dorata, ma a toccare profondamente è lo spirito di Seydou che raggiunge poi un nuovo livello di maturazione nella parte finale del film in cui tutto acquista maggior senso.

I sogni che si sono ripetutamente trasformati in incubi, si sciolgono nelle parole urlate del protagonista e il nostro paese rifulge nel suo sguardo, una fata morgana, un vago contorno, un piccolo pezzo di terra all’orizzonte, spettacolo misterioso per quelli come lui su una chiatta traballante e sovraccarica che tanto hanno patito e ora, forse, possono ricominciare a respirare. Io capitano è infine una storia di migrazione e sopravvivenza di cui c’è bisogno in un periodo storico e politico come questo, una fiaba che mostra il percorso di due Candidi che sognano in grande ma per cui il viaggio non è così facile. Per questo Garrone arriva agli Oscar, candidato come Migliore film internazionale, per questo suo diario di viaggio doloroso che tenta, in un’annata difficile, in una cinquina prestigiosa, di conquistare la statuetta con un piccolo grande eroe, tutto contemporaneo, che ha il cuore e il coraggio di navigare in un mondo pieno di mostri.