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La zona d’interesse

2023
Titolo Originale:
The zone of interest
REGIA:
Jonathan Glazer
CAST:
Christian Friedel (Rudolf Höss)
Sandra Hüller (Hedwig Höss)
Medusa Knopf (Elfriede)

Il nostro giudizio

La zona d’interesse è un film del 2023, diretto da Jonathan Glazer.

Prima di avvicinarsi a La zona d’interesse consiglio di cercare il documentario Final Account, girato da Luke Holland nel 2020: il regista, poco prima di tornare alla polvere, va a interpellare gli ultimi nazisti ancora vivi, in un dispositivo che ha pochi eguali, forse solo il lavoro di Joshua Oppenheimer sugli aguzzini del regime indonesiano in The act of killing. Gli anziani nazi trascorrono la terza età in piccoli centri della Germania come docili vecchietti. Non furono autorità né dirigenti, ma nazisti “normali”, semplici esecutori ora in libertà che ricordano serenamente lo sterminio degli ebrei, auto-assolvendosi. Non potevano fare altro, dicono, ribellandosi sarebbero stati arrestati e uccisi. A un certo punto uno di loro, in uno strano lampo di sincerità, afferma: “Non si poteva non sapere, c’era un odore dolciastro tutto il giorno…”. L’odore è quello della carne bruciata delle vittime. Da qui si parte per entrare ne La zona d’interesse, il film di Jonathan Glazer nelle sale italiane dal 22 febbraio 2024, dopo la presentazione in concorso al Festival di Cannes (Gran premio speciale della giuria), proprio nei giorni in cui veniva a mancare Martin Amis, l’autore del romanzo da cui il film è tratto, per continuare nella catena della morte.

Il film racconta la storia di Rudolf Höss (Christian Friedel), membro delle SS, che vive con la moglie Hedwig (Sandra Hüller) e i loro cinque figli in una bellissima casa con giardino, in cui allevano i bambini alla vita all’aperto e amano coltivare fiori. La casa è accanto al campo di Auschwitz dove ogni mattina Höss si reca a lavorare, essendo il comandante del campo di concentramento. E la zona di interesse è quella in cui vivono, che storicamente racchiude le venticinque miglia attorno al terreno. Tutto qui. O quasi. Nell’idea di mettere in scena il comandante Rudolf Höss, colui che stabilì la costruzione di Auschwitz per come lo conosciamo, compresa l’introduzione del gas Zyklon B nelle camere a gas, c’è una scelta radicale: non mostrare mai l’interno del campo. Filmando con luce naturale, appostandosi con gli obiettivi nella dimora degli Höss, casa e giardino, la messinscena lascia circolare liberamente i personaggi dentro le inquadrature, facendoli muovere proprio come fossero a casa loro. Così, come in un’installazione, veniamo portati in giro per la routine della famiglia, che si consuma senza particolari scossoni a un passo dal genocidio, il quale resta sempre fuori campo.
La banalità del male, allora. Ma c’è di più e altro. I membri della famiglia si intrattengono in attività quotidiane come consumare la colazione, preparata dai loro domestici, provare dei trucchi, scegliersi i vestiti più appetibili che vengono recapitati, far crescere le rose. Il marito discute coi colleghi dei progetti, raffigurati in disegni e schemi, per l’efficientamento di una realtà industriale trattata come una fabbrica. La moglie, da parte sua, appena emerge l’ipotesi di lasciare quell’ambiente edenico per un trasferimento, protesta e pretende di restare lì, i piccoli stanno troppo bene all’aria aperta. E i bambini giocano, come tutti i bambini. Sono una famiglia normale, ecco il punto, ed ecco perché si va oltre la definizione arendtiana: non c’è banalità né male, nelle loro menti, c’è solo la normalità dell’esecuzione. E qui torniamo allo sconcertante documentario di Luke Holland, alle voci vere dei responsabili: perché c’è qualcosa che va a sabotare la placida tranquillità della famiglia. Può essere il segno visivo del fumo, oppure un rumore nella notte. L’orrore non si può vedere, ma si può sentire e odorare. Esatto: quell’odore dolciastro riportato dal vecchio nazista permea La zona d’interesse, che diventa una sorta di odorama del Male. Ciò che non vediamo assume forza devastante e lo annusiamo in ogni fotogramma: guardiamo attentamente davanti, dietro, di lato ai personaggi per cogliere un segno dell’orrore. Come nei film dei fantasmi dove bisogna trovare gli spettri nascosti nell’inquadratura. L’indicibile si trova in secondo e terzo piano. Il fuori campo è più devastante di ogni rappresentazione plausibile dello sterminio.

Jonathan Glazer tesse un dialogo sotterraneo e terribile tra la normalità della famiglia e l’abnormità del genocidio oltre il muro: un esempio per tutti, nella casa si lamentano del cibo mentre fuori si muore di fame ridotti a scheletri umani, anche se non lo vediamo, ma è già metabolizzato nella nostra memoria visiva. Lo stesso regista inserisce alcuni indizi grafici che sono atti etici: una dissolvenza in rosso, il sogno ricorrente di una bambina che pianta mele nei campi di lavoro, girato con telecamera termica per ottenere un’immagine in negativo, l’unica che il Bene può ottenere. La consapevolezza però è solo nella regia, cioè nella politica del linguaggio: le persone sullo schermo propongono una sospensione morale, non si pongono il problema, dunque aderiscono all’orrore.
Nell’ellissi finale ritroviamo Höss alle prese con la burocrazia di regime, ed ecco che interviene un’improvvisa museificazione, costruita in modo totalmente anti-retorico. Gli oggetti appartenuti alle vittime vengono esposti oggi. Höss è sconvolto da un conato, ma non “viene alla luce”, bensì scompare nel buio: il nero è l’unica dissolvenza possibile. La zona d’interesse sbriciola la retorica dei film sulla Shoah, e insieme pone una questione cinematografica, un dubbio ottico: il non vedere è vedere l’abisso. Per chi se lo chiedesse dopo la proiezione, è anche un film che ci parla, siamo anche noi che viviamo vicino al massacro, è anche colpa nostra. È uno dei maggiori film mai realizzati sugli olocausti, più che sull’Olocausto, cioè sulle tragedie epocali: una di queste è la tragedia di non voler vedere.