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Perfect Days

2023
REGIA:
Wim Wenders
CAST:
Kōji Yakusho (Hirayama)
Tokio Emoto (Takashi)
Arisa Nakano (Niko)

Il nostro giudizio

Perfect Days è un film del 2023 diretto da Wim Wenders.

Aveva 38 anni Wim Wenders quando, nel 1983, girò in Giappone Tokyo Ga (Immagini di Tokyo), un omaggio all’amato regista Yasujirō Ozu. C’è tornato nel 2022 a 77 anni per realizzare Perfect Days (scritto insieme con il produttore e sceneggiatore Takasaki Takuma). Un film che con Ozu ha molto a che fare. E ha molto a che fare anche con i bagni pubblici nipponici, da sempre simbolo dell’ospitalità locale. Con il progetto Tokyo Toilet del 2020 (il protagonista di Perfect Days, il magnifico Kōji Yakusho, indossa ogni mattina la tuta con quel logo, quello vero), la città ha curato il restyling dei bagni pubblici del quartiere di Shibuya, facendone delle piccole opere d’autore, affidandone la progettazione a sedici archistar (Kengo Kuma e Tadao Andō, solo per citarne un paio). Ed è proprio qui, nei bagni di Shibuya, che Wenders ambienta buona parte del suo film, interpretato da Yakusho, attore notissimo in patria, 68 anni fascinosamente portati: ha lavorato anche all’estero (era, fra gli altri ruoli, il padre della ragazzina sordomuta in Babel di Iñárritu). Ebbene, Yakuscho, che sostiene praticamente da solo l’intero film, si chiama Hirayama, proprio come il protagonista dell’ultimo film di Ozu, Il gusto del sakè. Ci ricorda la voce fuori campo di Wenders nel prologo di Tokyo Ga: «I film di Ozu raccontano sempre le stesse semplici storie» [… ] «sempre della stessa gente nella stessa città: Tokyo» [… ] «secondo me, mai prima di allora e anche dopo, il cinema è stato così vicino alla sua essenza e alla sua funzione: offrire un’immagine dell’uomo nel nostro secolo, un’immagine utile, vera e valida in cui ci si può riconoscere e soprattutto da cui si può apprendere qualcosa di sé». Il che vale per Ozu, ma parimenti anche per il Wenders di Perfect Days. Fatta questa doverosa premessa, anche appannaggio di chi ritiene Perfect Days soporifero (liberissimo di farlo, ci mancherebbe), è proprio la ripetitività dei gesti quotidiani di un addetto alle pulizie dei gabinetti la cifra stlistica del film. A differenza –  faccio un esempio estremo forse un po’ eretico – dei giorni di Groundhog Day di Harold Ramis, laddove Bill Murray vive un loop temporale per cui si sveglia ogni mattina al suoni di “I Got You Babe” di Sonny & Cher, nel cosiddetto giorno della Marmotta, e fa le stesse identiche cose. In Groundhog Day, però, si tratta, di una sorta di incantesimo imposto, dal quale liberarsi, mentre in Perfect Days la ripetitività quotidiana è voluta, felicemente voluta.

Il titolo del film è ispirato all’omonimo brano di Lou Reed che Hirayama ascolta, insieme con altri indimenticabili pezzi anni 60 e 70, nel tragitto che compie ogni mattina per raggiungere Shibuya (Otis Redding, Aretha Franklin, i Kinks, Nina Simone, il già citato Lou Reed e tante altre meraviglie musicali di quegl’anni d’oro). Ogni mattina all’alba Hirayama si alza dal suo tatami, fa toilette in un minuscolo lavandino, prende un caffè alla macchinetta sotto casa e via verso il luogo di lavoro alla guida del suo buffo minivan azzurro dove trasporta il materiale necessario alla pulitura dei bagni. Poi infila una vecchia audiocassetta (però ogni giorno diversa…) nel mangianastri e, lungo il percorso, osserva con una meraviglia da bimbo incantato i grattacieli della città che si stagliano nel cielo. Giunto a Shibuya, scarica il materiale e comincia le pulizie dei bagni pubblici che sono, per la maggior parte, già lindi (i giapponesi non sono gli italiani… basti pensare ai cessi dei nostri treni a confronto di quelli dei loro Shinkansen). Hirayama si applica con grande passione al proprio lavoro, ma non solo: aiuta un bimbo che s’è perso, seduto sul water di un gabinetto, a ritrovare la madre (che neppure lo ringrazia); ascolta i problemi che vive con la fidanzatina un suo giovane collega e arriva a prestargli l’auto e pure un po’ di soldi per poter trascorrere con lei una serata importante. Ma parla poco o niente, Hirayama, e pensa molto, elabora ogni cosa solo con se stesso. È felice della sua vita che ad altri potrebbe parere squallida e monotona:  magari qualche ora trascorsa in un sento, la struttura igienica pubblica giapponese nella quale i clienti possono lavarsi e calarsi in grandi vasche per un momento di relax. La sera Hirayama passa dal solito locale dove il barman gli dice puntualmente, ogni giorno, servendogli la consueta bibita: «Ecco a te, dopo una faticosa giornata di lavoro» o passa nel pub gestito da una donna matura chiaramente affascinata da lui e ascolta in religioso silenzio un paio di clienti che suonano la chitarra. Poi a casa, dove legge qualche pagina di un romanzo di William Faulkner, spegne la luce e si addormenta. Così, immancabilmente, ogni giorno.

Momenti felici per lui. Perché felici? La sua felicità viene percepita dallo spettatore anche grazie alle incredibili capacità attoriali di Kōji Yakusho. Un appagante status quo che viene interrotto solo dalla visita di una giovane nipote di Hirayama, affascinata dal tacito carisma dello zio al punto da voler restare a vivere con lui. Ma la madre riccona, sorella di Hirayama, verrà a riprendersela. Unico momento, questo, in cui si intuisce qualcosa del passato di Hirayama che ha preferito una vita semplice e pura rinunciando (forse) a un’esistenza benestante che la famiglia avrebbe potuto garantirgli. Chissà. Infine, dopo un suggestivo incontro su un ponte con un uomo malato e destinato a prossima morte (mi ha ricordato – chissà perché – quello fra Jimmy Stewart e l’angelo Clarence ne La vita è meravigliosa di Frank Capra), Hirayama torna alla sua vita, offrendoci la scena, quella finale, più incredibilmente coinvolgente del film: Wenders riprende in primo piano il viso di Kōji Yakusho, grandissimo, mentre guida il suo minivan, una ripresa che è già, essa stessa, un film: uno sguardo dell’uomo che sorride felice, ascolta musica meravigliosa e si commuove della bellezza della vita. Poesia pura come il komorebi – così lo chiamano in Giappone – ovvero il riflesso del sole che appare fra le fronde degli alberi e che Hirayama fotografa ogni giorno con una vecchia Olympus analogica. Un invito alla semplicità da parte di Wenders, forse un’utopia nel mondo in cui viviamo, quella semplicità (già cara a Ozu) di cui oggi ci sarebbe gran bisogno. È ancora lecito sognare?