Civil War: tutto c’è se lo si vuol vedere

Riflessioni su Civil War di Alex Garland
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S’è scritto parecchio, talvolta a sproposito, su Civil War. Il film di Alex Garland ha goduto di un alto livello di hype fin dai primi trailer, il che rende comprensibile che a ridosso dell’uscita se ne parli tanto seppur non sempre se ne colga il senso rimanendo piuttosto sulla superficie. Tra le interpretazioni scorrette c’è quella secondo cui l’opera sarebbe equidistante rispetto alle parti in gioco, preferendo mostrare senza pronunciarsi. Ciò può sembrare vero a una prima analisi poco approfondita, ma con un poco di attenzione la presa di posizione salta fuori. Terzo mandato, scioglimento dell’FBI, raid aerei sui civili, entro un mese il presidente, un Trump non del tutto esplicitato che s’è preso lo spazio che non gli competeva, sarà morto entro un mese. Poi, questo è chiaro, Garland non te la spiattella, la spiegazione, non te la agita davanti alla faccia perché Civil War è un film che allude, suggerisce e presuppone tanto, se tante cose non le sai finisce che molti aspetti importanti non li cogli ma a volerli approfondire sono lì, mostrati con quella sintesi estrema che è la cifra di un film che, ricordandosi di essere tale, racconta soprattutto con le immagini. Tanto di quel che c’è da sapere lo trovi lì da vedere, ma devi stare attento.

Poi, intendiamoci, la presa di posizione non implica quel genere di manicheismo narrativo che divide il bianco dal nero con un taglio netto. La guerra è un fatto efferato, chi la fa compie efferatezze. La guerra civile, poi, è un fatto complesso, una granata a frammentazione che fa saltare gli equilibri e fa esplodere le molteplici tensioni di una società composita e sfaccettata. Non ci sono i due blocchi granitici del governo e degli insorti, o per lo meno non soltanto. Ci sono i boogaloo boys con le camicie hawaiiane e il loro complottismo eversivo, ci sono i suprematisti bianchi che ripuliscono una cittadina a colpi di fucile e scavano una fossa comune, c’è chi semplicemente ne approfitta per regolare i conti in sospeso e c’è qualcuno in full denial che prova ad andare avanti come niente fosse. E tanto altro, una complessità che Garland comprime in un percorso, diegetico ma anche politico, adattato al mezzo narrativo di un film nemmeno troppo esteso in termini di durata. Un’operazione magistrale che riesce proprio grazie a una sintesi estrema ma puntuale che si esprime attraverso un world building di una solidità impressionante dal punto di vista visivo, ricco di dettagli significativi e in grado di risultare evocativo e d’impatto nonostante la sovrabbondanza di immagini apocalittiche a cui ci siamo assuefatti cavalcando l’onda della narrativa distopica che con tanta efficacia sembra incarnare lo spirito dei tempi. Civil War ti colpisce così, prendendoti a pugni lo sguardo, con immagini che simili le avresti potute trovare con Google tutte le volte che volevi ma questa volta è diverso perché il cemento su cui sono distesi i corpi crivellati in un lago di sangue appartiene a coordinate molto sensibili delle tue coordinate interiori. La rappresentazione della guerra in un paese dell’Africa Centrale non fa lo stesso effetto quando lo scenario sono gli Stati Uniti che, anche se non ci sei mai stato nemmeno in vacanza, sono fibra del tessuto narrativo del tuo immaginario e della tua percezione del mondo. Il contesto conta, e Garland lo usa come una trave per colpirti ripetutamente.

Se proprio dobbiamo imputare un difetto a Civil War, a parte un paio di passaggi un filino retorici, è la caratterizzazione dei personaggi che talvolta si appoggia a modelli riconoscibili, punti di accesso alla narrazione che si sarebbero potuti evitare risparmiandosi un certo senso di già visto. Poi, sia chiaro, a livello di sviluppo i protagonisti non seguono il percorso più asciutto ed efficiente, ma non di meno arrivano dove devono arrivare, ovvero dritti in bocca al PTSD che li fa a pezzi e spariglia le carte in tavola. Qualcuno dà di matto e cede, qualcuno ne prende il posto spogliandosi dell’empatia superflua, qualcuno era e rimane un tossico di adrenalina che prosegue il percorso evolutivo che si era tracciato fin da quando è comparso sullo schermo. La guerra fa a pezzi tutti, nel corpo o nella mente, nessuno ne esce perché l’estensione del trauma è globale, quello che varia sono le strategie, i coping mechanism che vanno dalla negazione alla pura sopravvivenza, in tal senso il discorso del cecchino alla fiera di Natale è emblematico, un altro pezzo di sintesi che valorizza la maestria di Garland. Civil War è in definitiva un gran film che si misura con la complessità e non ne esce con le ossa rotte nella misura in cui fa quel che la narrazione fa, dare ordine e senso alla realtà fattuale, ricostruendola in una scala funzionale ma mai tanto semplificatoria da sottrarle profondità.