#iostoacasa: esorcizza la paura con Nocturno

Pandemia - Guida al cinema (anti)batterico - Capitolo 4: Febbre gialla
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#iostoacasa e leggo Nocturno – Pandemia – Guida al cinema (anti)batterico – Capitolo 4:

FEBBRE GIALLA

Zeze Takahisa è uno dei grandi nomi del pink eiga, ma con la capacità (e possibilità, ovviamente) di passare da folli esperimenti nell’erotismo del calibro di Tokyo Erotica (2001) a blockbuster come Moon Child (2003, sorta di Twilight in anticipo di cinque anni), a prodotti inclassificabili come Yuda (2004). E quest’anno lo troviamo al timone del suo nuovo film Kansen Retto, appena intravisto al mercato di Cannes, il cui titolo anglofono è, appunto, Pandemic. Il titolo arriva giusto in tempo (e già si rumoreggia di un remake statunitense) a sottolineare il tempismo – oltre ad un ritornato interesse in Giappone prima, nel resto dell’Asia poi – per il cinema catastrofico. Riducendo ancora la riflessione al solo filone delle pestilenze, virus e contaminazioni varie ci troviamo per l’ennesima volta a dovere gettare via l’organicità a causa della limitatezza dello spazio a disposizione cercando di seminare alcuni sussulti, speriamo adeguatamente stimolanti e emananti curiosità. La pandemia in Asia ha assunto forme e significati decisamente diversi nel tempo e nei generi per motivi diversi. Non si può non partire e non citare il nome del maestro Fukasaku Kinji che tante volte abbiamo evocato e che di nuovo evocheremo in futuro e il suo Ultimo rifugio Antartide (Fukkatsu no Hi) del 1981, commissionato dalla Kadokawa in vena di investimenti e rivelatosi un mezzo flop, tant’è che negli Usa uscirà in una versione ridotta di quaranta minuti. Un’arma batteriologica per errore viene diffusa nell’aria e in un battibaleno stermina la quasi totalità della razza umana. Il rimedio dei potenti della Terra è – ovviamente – quello di bombardare con testate atomiche le maggiori città del mondo con il risultato che l’ultimo baluardo dell’umanità resta l’Antartide, dove il virus sembra non sopravvivere. Suggestivo ed efficace, anche se parzialmente anomalo/anonimo all’interno della carriera del regista, Ultimo rifugio Antartide diventerà una sorta di punto di riferimento per tanto cinema catastrofico più intelligente della media, partorendo tanti figli, seppur non sempre riusciti, fino alla contemporaneità.

Ebola Syndrome

Ebola Syndrome (1996), Herman Yau

D’altronde, questi metodi poco raffinati per risolvere i problemi sembrano essere sempre quelli preferiti da eserciti e governi. Infatti, tornando al presente, la pandemia più “forte” che ci torna in mente in tempi recenti è quella mostrata all’inizio di L – Change the World (Nakata Hideo, 2008), ovvero lo spin-off del dittico di Death Note, e che colpisce un intero villaggio sperduto che sarà azzerato tramite un ordigno di inusitata potenza distruttiva. Dopodiché il virus in questione diverrà elemento di sviluppo narrativo e arma in mano ai folli ambientalisti che intendono resettare l’umanità in eccesso. Sequenza dura e suggestiva poggiata in testa ad un film che invece non c’è. Una VHS che se vista va duplicata e quindi “trasmessa” ad altri cari, al fine di sopravvivere condannando a morte gli altri. Telefonate a catena che inducono il decesso. Siti web da cui escono fantasmi-tristi-virus che portano al suicidio. Si, siamo all’interno del J-horror dove la componente contaminante dell’orrore era preponderante. La morte per autoalimentarsi si imponeva come trasmissibile e si diffondeva a macchia d’olio proprio come un virus; The Call, Kairo, Uzumaki, fino alle onde televisive venefiche di Dead Waves (Hayama Yôichirô, 2005) senza mai dimenticare che il titolo anglofono della versione cinematografica sud coreana del romanzo di Suzuki Koji era proprio Ring: Virus. Abbiamo citato prima nel caso di Ultimo rifugio Antartide una visione macroscopica della diffusione del batterio letale. Scendendo più nel microscopico e intimo troviamo uno dei capisaldi del catastrofico, nientemeno che (e il nome dice tutto, o quasi) Ebola Syndrome (di Herman Yau, 1996) versione più ludica e surreale dell’ormai classico The Untold Story. Riconfermato il ruolo per Anthony Wong che massacra donne e bambini, fugge in Africa, stupra indigene morenti, si infetta di Ebola e torna a Hong Kong a seminare virus e terrore respingendo i poliziotti a colpi di sputo e infettando persone con sangue e liquidi organici vari. Un’epica del cattivo gusto e del politicamente scorretto di proporzioni bibliche. Un filone che lentamente si è fatto sempre più numeroso (e patinato) in Asia è quello zombesco. E tra i numerosi titoli recenti (Bio Cops, High School Girl Rika: Zombie Hunter, Versus, Zombie Self-Defence Force, Wild Zero, Yakuza Zombie…), come da manuale molte delle epifanie dei non morti sono causate proprio da virus più o meno casualmente liberati dall’uomo.

City of Sars (2003), Wai-Man Cheng

City of Sars (2003), Wai-Man Cheng

Dalla anonima bibita contaminante di Bio-Zombie (Wilson Yip, 1998) alla montagna di rifiuti tossici di Tokyo Zombie, passando per la classica nube tossica prodotta da una meteora impattata a terra in Living Dead in Tokyo Bay, il batterio portato dal folle generale militare ipersessuato di Girls Rebel Force of Competitive Swimmers (cfr. nocturno agosto 2008), fino al classico virus di origine scientifica che prima uccide e poi rianima, presente nel dittico di One Chanbara, tratto dall’omonima franchise videoludica. Ma restando in tema, la pestilenza più romanticamente riuscita è quella del low budget Stacy, una delle poche visioni originali in tema zombesco degli ultimi venti anni, in cui la normalità narrativa è il decesso di tutte le ragazze in una determinata fascia d’età e la loro automatica resurrezione post mortem. Il sottotesto melodrammatico è che l’amore non si ferma dopo la morte. Il regista, Tomomatsu Naoyuki adotta delle note dolenti e raffinate che non ritroverà più nei film successivi. Il virus, soprattutto se di origine scientifica, ha comunque affascinato il cinema asiatico di ogni ordine e grado, specie in Giappone, dal blockbuster più blasonato al più misero v-cinema; un film facilmente citabile a questo proposito è Nezulla – The Rat Monster, dove sullo sfondo di una popolazione infettata e in quarantena a causa di un virus prodotto in laboratorio e sfuggito al controllo di chi di dovere, si svolge parallelamente, in un edificio abbandonato, uno scontro all’apparenza impari tra alcuni soldati e un violento topo gigante bipede, mutante e mangiauomini. Infine va fatta una riflessione; l’Asia una pandemia l’ha già realmente subita, evento che ha molto influito e intaccato sia l’economia che la cultura locale, soprattutto a Hong Kong. Stiamo parlando, ovviamente, dell’avvento della Sars, che ha avuto – rimanendo alla nostra riflessione – due risvolti; da una parte una produzione di film in tema come l’anonimo City of Sars o il thailandese, ben più riuscito, Sars Wars (lode al titolo). La seconda reazione, dicevamo, è stata quella di cercare di portare ottimismo tra la popolazione colpita, coinvolgendo vip e star del cinema in una continua elegia della forza della popolazione contro un male così inaspettato e letale.