Il cinema che non volle Moana

I film come meteora prima di sfondare nell’hard
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La compagna di viaggio pare sia il primo film in cui Anna Moana Pozzi (così è accreditata nei titoli di coda, quarto nome dopo Massimo Pittarello, Giovanni Tamberi e Francesco Caracciolo) ha un ruolo sensibile e senziente. Persino parlante: «Il capo dice che è tutto pronto… prendi la mia macchina se vuoi»; tredici parole pronunciate davanti a una cascata di Saturnia, quando la nostra va a dare il cambio a Anna Maria Rizzoli che sta posando per un servizio fotografico a tette di fuori. La Rizzoli si defila e Moana prende il suo posto, prorompendo con due mammellone che ancora non avevano conosciuto – come si diceva un tempo – l’onta del bisturi. Se il primo punto sulla mappa presagisce il cammino, se tanto mi dà tanto, il prorompere di quel seno ha scritto in sé il destino di Moana. Arriva lì dopo avere conosciuto per caso un vecchio produttore – che in una variante d’autrice diventa l’agente di Edwige Fenech – un pomeriggio dell’estate 1980, a Bracciano: «Portami qualche tua foto domani in ufficio». Moana acchiappa un paio di vecchie Polaroid, gliele mette sul tavolo e viene ingaggiata. Come look, è in modalità hippy/alternativa, fascia viola intorno alla testa, una treccina tra i capelli, borsetta a tracolla. Sembra più matura dei 18 anni che aveva, il viso ostenta una struttura massiccia, allungata, quasi cavallina, con un che di forte che la Moana storica stempererà completamente nel morbida curvilineità di una faccia a bigné. Anche gli occhi sono diversi, non tradiscono la complessione ipertiroidea come sarà nel dopo. Nel film di Ferdinando Baldi, Moana c’è all’inizio e alla fine, quando siede vicino a Gastone Moschin e agli altri compari suoi (è la storia di una truffetta e lei è una delle complici) e ride fuori sincrono e fuori misura rispetto alla situazione.

Con I miracoloni siamo già in un’area calda, in quell’estate del 1981 durante la quale si assume che Moana avesse compiuto il doppio salto mortale nell’hard — quello che prende le misure con le pratiche pornografiche, non quello con cui sfonda, che arriverà anni dopo. Film estivo anch’esso, questo di Francesco Massaro porge alla nostra poco più di una figurazione speciale, vestita di rosso – il rosso è il suo colore –, mentre ramazza il pavimento in un bar, piegata a novanta gradi con il deretano in faccia ai Gatti di Vicolo Miracoli. Sugli end titles è Moana Pozzi, terzultima con undici nomi prima del suo tra “altri interpreti”. In Borotalco di Carlo Verdone le va meglio: Moana apre la porta al regista e protagonista quando va a casa di Manuel Fantoni (Angelo Infanti). Ottiene tre pose, tutte in quella parte ambientata a casa del fregnacciaro. Introduce al Fantoni Carlo Verdone, nuota dentro un aquario e massaggia Infanti. Nella prima e nell’ultima scena è vestita, in quella in mezzo completamente nuda, con enfasi; perché esce dall’acqua e, in piedi, si appoggia contro una parete di vetro. Verdone è basito. Lo spettatore meno, perché l’effetto full frontal si stempera nel campo lungo. Il ruolo è parlante ma in inglese. Continua comunque ad essere poco riconoscibile rispetto alla Moana che verrà. Quando apre la porta ha l’accappatoio bianco con i seni sull’uscio e i capelli bagnati. Quando massaggia Fantoni veste un top e porta i capelli raccolti. Verdone, a scanso di equivoci, non è tra i nomi di quelli con cui Moana nel suo libro dice di avere scopato. Pare l’avesse trovata che dormiva in un lettone il giorno in cui andò a fare i sopralluoghi nell’appartamento dove avrebbero girato: «Ora che mi hai svegliata, almeno un parte me la darai?».

Chi si ricorda Moana in Borotalco? Nessuno. Chi non se la ricorda in W la foca? Nessuno. Il film di Nando Cicero è il primo dove la Pozzi parla con la sua voce, nella messa in scena della barzelletta in cui una bonona che viaggia in treno di straforo, si apparta una, due, tre volte con i controllori che la sorprendono senza biglietto: «Dove deve arrivare?», chiede a Moana Lori De Santo, che siede nello stesso scompartimento: «A Reggio Calabria… se mi regge il culo!». Qui è già assumibile nel cult e sembra già la nostra Moana domestica, non un’aliena come nelle precedenti apparizioni. La permanente, biondo rossiccia, le dona e la sua fisiognomica è quasi quella classica. Ma era probabilmente funzione delle luci, dei costumi, di trucco e parrucco, se in film contigui nel tempo e partecipati a catena di montaggio, Moana sembrava ora fatta in un modo e ora in un altro. In Vieni avanti… cretino, la sua terza pellicola “normale” distribuita nel 1982, ha la particina parlante («Non avrà mica preso della cortisonchemicetina?»; «No, io sono venuto in metropolitana») della hostess dell’istituto di cibernetica in cui trova impiego Baudaffi Pasquale (Lino Banfi). La voce è ancora la sua e lei, statuaria, si offre fasciata in una tuta bianca attillatissima, con due tasche trasparenti sul culo. Tempo in scena: circa tre quarti di minuto. Non abbiamo ancora detto e lo aggiungiamo ora che Moana, fin dall’inizio di questo suo cursus honorum nel cinema, fu rappresentata dall’agente Giacomo Ciarlantini: «Ma non funzionò mai come volevo io», ebbe a dichiarare l’interessata.

A metà del 1982 va in censura Delitto carnale di Cesare Canevari, un film che vivrà la sua vita in maniera caotica, tra il 1983 e il 1987, tra la sala e l’home video, tra una versione castigata e una pornografica di cui parleremo a tempo debito. Moana è il quarto nome nei titoli di testa, dopo Marc Porel, Sonia Otero e Antonio Lucarella. Il che riflette perfettamente il ruolo quasi centrale che sostiene nella storia: è l’amante e l’oggetto sessuale di Sonia Otero e finisce per intrecciare una relazione con Lucarella – mentre in parallelo la Otero si corica con Marc Porel. Il gioco è sostanzialmente tra questi quattro protagonisti, in un giallo ereditario – pretesto per cochonneries – ambientato in un albergo, fuori stagione, in Puglia, quando ancora la Film Commission era pura trascendenza che attendeva di trasferirsi nel seme di qualcuno. Delitto carnale è importante almeno per due ragioni, non certo in assoluto ma nel contingente della storia di Moana. Fu – ora è possibile sostenerlo con quasi assoluta certezza – il primissimo film dove la Pozzi si produsse in azioni hard: Canevari lo aveva girato nella seconda metà del 1980, nella peggiore delle ipotesi almeno sei mesi prima di Erotic Flash e Valentina ragazza in calore. La seconda ragione è che a Moana viene data così tanta rilevanza: Marc Porel era il nome per il noleggio; Lucarella era amico stretto e socio di Canevari; Sonia Otero c’era in quanto amante del produttore Bertuccioli. E Moana? Moana per Canevari fu una bella scoperta e il regista non fece mai mistero di questo, anche se diceva che era “dura”, battendo le nocche sul tavolo, che nel linguaggio di Canevari significava che era difficile dirigerla, che non obbediva, che era gnucca. Cinematograficamente la vezzeggiò comunque molto, primi piani, enfasi, carezze e sottolineature della mdp; si attribuiva anche il merito di averla fatta depilare. Il film è quello che è. E anche Moana nel film è quello che è, cioè quello che serve che sia: una bellina disposta a strofinarsi un po’ contro Sonia Otero (ma è grande la ripresa di quest’ultima in vasca da bagno attraverso una spaccata intercrurale della Pozzi), a lasciarsi palpare e a sottostare a una monta già abbastanza hot senza i dettagli a luce rossa, nella sequenza con Lucarella.

In primavera del 1983, Moana vola a New York per girare alcune scene del film d’azione di Enzo G. Castellari Fuga dal Bronx. L’eziologia: un conoscente del regista gli chiede di poter dare un ruolo alla Pozzi e si accolla l’onere delle spese di viaggio e di soggiorno in America. Sul set lei spara, corre, combatte, si scapicolla finché non viene abbattuta da un proiettile dei cattivi. La si vede un bel po’, anche on stage ha il suo vero nome, ma non è certo quello il contesto in cui possa emergere, definirsi. Anche se l’abbigliamento post-atomico la valorizza, ha una bella acconciatura, il viso è morbido e Castellari non dice che bene di lei: colta, preparata, intelligente e padrona delle lingue. L’aurea mediocrità di questi pochi spiccioli in più di una figurazione speciale prosegue in Paulo Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento, di nuovo con la regia di Cicero, e in Vacanze di Natale di Carlo Vanzina, gli altri due film che gira nel 1983. Nel primo facendo un’emissaria di Franca Valeri che dovrebbe sedurre Vitali/Cotechiño in discoteca (abito nero mini, scosciata, doppiata), nel secondo essendo Luana, con la quale Jerry Calà fa una brutta figura («Non ti preoccupare, sono cose che capitano» dice con la sua voce mentre, in reggiseno e mutandine bianche, si riveste; «Sì, capitano agli altri…»). Su quest’ultimo set c’era Guido Nicheli, il “Dogui”, che domandato di Moana, così rispondeva: «Bella figa, fianchi stretti, culo alto e una terza piena, ma anche molto intelligente». Quello che dicevano tutti, ma ex post. Ex ante nessuno sembrava disposto a dare una chance in più, a tutta questa avvenenza e intelligenza.

In Dagobert, primo suo film dell’annata ’84, Moana racimola due minuti scarsi di presenza sulla scena. Fa una concubina del re Dagobert (Coluche) insieme ad altre due bionde. In A tu per tu di Sergio Corbucci è totally naked in un lettone post-orgia sul panfilo di Johnny Dorelli, che si sveglia avvinghiato alle sue gambe – nella scena c’è anche una negra, la cantante Tracy Spencer quando ancora si faceva chiamare Tracy Freeman. Stando a quanto dice Paolo Villaggio, coprotagonista del film con Dorelli, questa particina a Moana gliela fece avere lui – non che si fosse particolarmente sprecato. Comunque non fu un do ut des: lui con lei non ebbe mai rapporti sessuali. E se così fosse, Villaggio sarebbe stato davvero uno dei pochi. Dino Risi se la porta forse dietro da Dagobert nello sceneggiato tv Rai in più puntate …E la vita continua, andato in onda nell’aprile 1984, dove Moana è la segretaria particolare (cioè, quella con cui scopa) di Vittorio Mezzogiorno. Anche qui il coefficiente di attenzione che si riversa sulla Pozzi è prossimo allo zero. Un’altra bella statuina che si aggiunge alla sua collezione. Risi un giorno dirà che chiamò Moana, la Moana ormai celebre, perché gli desse qualche buon consiglio per raccontare la storia di Carla Corso, presidentessa del sindacato delle prostitute. In sostanza, le chiedeva una consulenza su come parlare di mignotte. Passata nel 1985 attraverso I pompieri di Neri Parenti – dove è la moglie di Lino Banfi e ha tre pose; nella prima recita da cani, con la sua voce e una camicetta a fiori che è un pugno nell’occhio; nella seconda è vestita tutta di rosso e bacia Banfi in fronte e nella terza i colleghi pompieri del marito la sorprendono mentre lo cornifica a letto con Ottaviano Dell’Acqua – Moana finisce nelle mani di Fellini, che la chiama “Moanina”, le fa esibire il culo davanti alla Masina, ridendo – così narra la leggenda – e la dirige in alcune cosette che in gran parte verranno tagliate al montaggio di Ginger e Fred. Ne resta solo una nel film, Moana in tv che facilita la battuta di Marcello Mastroianni, quando la guarda: «Eilà, chiappa tonda fava gioconda!».

Quando gira Doppio misto di Sergio Martino, nel 1986, con destinazione televisiva, Moana è già perfettamente Moana, ha compiuto quello che gli antichi usavano chiamare telos, il proprio destino. Quantomeno nella forma – seno ancora non scolpito dal bisturi a parte. Nei Pompieri aveva conosciuto Andrea Roncato e aveva avuto con lui una storia di letto durata un paio di mesi: «Era simpatico, generoso e aveva un bel cazzo», scrisse Moana e gli diede, come amante, un sette, lei che tendenzialmente stava sempre bassa con i voti. Fu così che finì in Doppio misto, una commedia fatta su Gigi e Andrea e sulla stella di Drive-In Tinì Cansino, una che dava l’impressione – probabilmente non errata – di non essere in grado nemmeno di allacciarsi le scarpe. Moana ha un ruolone, è in scena un momento sì e l’altro pure, cambia di continuo vestiti (il giallo canarino le sta molto bene), si doccia (seno nudo, niente pelo) e recita le battute del copione con naturalezza e impegno degni di miglior causa, come avrebbero scritto una volta i recensori quotidianisti. La vicenda è una pochade di corna incrociate che non arrivano mai a consumarsi tra Andrea, Virginia (Moana, l’unica a non essere on stage col proprio nome di battesimo), Tinì e Gianni Ciardo, che era compagno di liceo della nostra, non se la fece allora e oggi vorrebbe rimediare, mentre la Cansino, sua moglie, è amante di Roncato, che fa il dentista ed è marito di Moana. Gigi ha il ruolo di un mezzano che mette a disposizione una grande casa dove i fedifraghi in pectore finiscono tutti quanti, generando equivoci e gag – abbastanza sciapi, in verità. Doppio misto fu l’ultimo film che la Pozzi girò prima di Fantastica Moana. Non aveva mai sfondato nel cinema da cinque anni ad allora ed era probabilmente giunta a capire, a quel punto, che il massimo per lei, ciò che poteva aspettarsi di meglio era questo: un Doppio misto in cui fare la bellona, come spalla tettuta e cosciuta di Gigi e Andrea, sullo stesso piede di parità con le subrettine Miss la qualsiasi. Non le bastava, non le sarebbe mai bastato. Giustamente. Così decise. Meglio regnare nell’hard che servire nel cinema normale. Ed ebbe ragione.