La cabala di Amarcord

Un film che ci invita potentemente a godere. Per esso, con esso…
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Peppuccio Tornatore raccontava che fu la visione di Amarcord, quando aveva 17 anni, a determinarlo a diventare un regista. E Amarcord tornava al cinema, una decina circa di anni orsono, in una versione restaurata, con una clip di otto minuti in sposa, montata proprio dal nominato Tornatore, contenente doppie, tagli, ritagli e frattaglie, estratte dal girato originale felliniano. Bisognerebbe auspicare che accada l’inverso di quanto accadde con Tornatore, ovvero che Amarcord abbia un potere dissuasivo su tutti gli aspiranti registi che, di fronte all’opera, addivengano a più miti consigli e scelgano nella vita di fare altro. Perché Amarcord sta ai paragoni come la Divina Commedia letta da uno che voglia diventare poeta: lo costringe a gettare qualunque ispirazione alle ortiche, a rendersi conto di quanto piccola sia qualunque velleità artistica di fronte all’Arte. Fate altro, perciò, datevi ai reels o montate qualche video per Instagram. Amarcord è veramente titanico. Ma non di quel titanismo gonfio e tronfio che da Oriente a Occidente oggi spalanca gli occhi dello spettatore ebete e inebetito. Amarcord è titanico senza baccani e senza strepiti, ha una colossalità che viene fuori dai colori e dai sapori che si stendono, pastosi, e si avvolgono vicendevolmente, si compenetrano, si abbracciano, limonano e slinguano come se stessero facendo l’amore tra loro e con chiunque voglia partecipare. Amarcord è un film partouze, il cui fine ultimo è quello di far godere. E Fellini è il grande tenutario di questo bordello, l’orchestratore della grande ammucchiata. Però attenzione: si bacia, si lecca, si succhia e si viene succhiati, si eiacula, ma omne animal triste post coitum. E c’è anche questo, in Amarcord, il retrogusto amaro del poi, del dopo, il delizioso groppo in gola che nasce dalla consapevolezza che l’attimo è fuggente.

Amarcord è un film degli anni Settanta e non sarebbe immaginabile né dieci anni prima né dieci anni dopo. Dieci anni prima sarebbe uscito troppo secco, troppo asciutto, smilzo e magari in bianco e nero: orrore! Dieci anni dopo sarebbe uscito troppo gonfio, tronfio, colorato, esondante e astralizzato. È giusto lì, nel 1973, con le facce che Federico Fellini sceglie sì, ma le sceglie perché il Tempo gli offre quelle facce, quei cipigli, quelle prosopopee che esistevano sulla Terra solo in quell’età. Non prima e non dopo. La verità, si dice sia figlia del tempo; e anche la bellezza. Fidia non poteva che scolpire le sue opere nell’Atene Periclea. Dante vergò la Commedia in quel tempo. Amarcord non avrebbe potuto essere fatto se non allora. Amarcord o del godimento e della contemplazione. Il che significa che bisognerebbe cercare di soddisfarsi della visione, ripetuta come un medicamento a cadenza perlomeno annuale, al fine di depurarsi delle scorie (la merde, in francese) che abbiamo accumulato. Non più di una decina di film possiedono questa energia curativa sullo spettatore. Quasi tutti sono degli anni Settanta. Quasi tutti italiani.

Ci mancherebbe solo che qualcuno cercasse di venirci a spiegare perché Amarcord è Amarcord. Impossibile. Aprilo, taglialo, squartalo, sondalo, sfrucuglialo, rivoltalo e ti tocca richiuderlo come quei pazienti sui quali il chirurgo si rende conto di non poter intervenire, di non poter fare nulla. Su Amarcord non possiamo fare davvero nulla. Dobbiamo, al massimo e se siamo bravi, adombrarlo con descrizioni capaci, della Gradisca, di Titta, della Volpina, delle suore nane, di Ingrassia sull’albero, del bue nella nebbia, del professore di greco, delle seghe in compagnia, della nave, della neve, del sole, di Brancia, di Di Falco, dell’universo chiuso e autosufficiente del film, come se improvvisamente la nostra penna sapesse pigliare il colore dell’inchiostro di un Piero Chiara. Ma non azzardarsi ad andare oltre, non avere l’arroganza di credere di sapere e quindi spiegare al prossimo che cosa corresse nella testa di Fellini. Fellini è uno dei massimi cabalisti del cinema, non solo nostro ma mondiale, e da grande cabalista metteva in mostra la radice segreta di Amarcord ricorrendo al calembour, all’à peu près fonetico che è l’unica maniera per approssimare il mistero del capolavoro: «… Se si uniscono amare, core, ricordare e amaro, si arriva ad Amarcord». E più non dimandiamo…