Bordelli felliniani

Il gran Riminese e il mito della marchetta
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Non vi è altro cinema, oltre a quello felliniano, così tempestato di fantasmi. Ombre metafisiche che si agitano fra i marosi dell’Es, costantemente sconquassate da un vento sibilante che rende ancor più inquieta la lux perpetua di un tramonto che sembra non aver mai fine. Nel coro costante di fantasmatici archetipi, la Donna, “Totemica Genitrice”, ha un ruolo di primaria importanza: la “Grande Mouna”, versione degradata e ancestrale della Grande Madre, che occhieggia oscena al centro del Casanova, sotto le spoglie di un umido ventre di balena che si fa turgido ventricolo e placenta: «Tutto è nato dalla Mona, anche la Mona», grida l’imbonitore. Anche il cinema, verrebbe da dire, visto che all’interno di quel palpitante orifizio, una lanterna magica proietta su quelle pareti di carne, una raffica di “vagine dentate” partorite dal grande Roland Topor. Sfacciata Tellus Mater, quindi, la Donna nell’immaginario del grande regista riminese, cresciuto sotto le gonne di una amorevole balia che lo ha “svezzato” in tutti i sensi (come ci ricorda egli stesso in tantissime opere, da 8 e 1/2 a La città delle donne) e all’ombra della pachidermica Saraghina, baccante di riviera, lascivamente ancorata a una rumba strimpellata da Dioniso… Una Donna, quindi, col ventre di Madre ma in grado di gorgheggiare il canto di sirena della Grande Meretrice: su questo tema si son scritte tonnellate di tomi, e anche di corbellerie (si vedano gli strali di femministe delle caverne come l’americana Molly Haskell nel suo From revenge to rape: the treatment of women in the movies): è preferibile ricercar la chiave di codesto sommo Muliebre Mistero attraverso Fellini stesso che nel 1974, nel suo imprescindibile “libro dei sogni” abbozza uno scorcio onirico quantomai rappresentativo che ha come protagonisti il regista stesso e Papa Paolo VI. I due fluttuano fra le nubi all’interno del cesto di una mongolfiera e, ex abrupto, si trovano dinanzi una incredibile gigantessa dai generosi fianchi, avvolta dai nembi. Con fare arcigno, il pontefice urla a uno stupefatto “Fefè” (nomignolo appioppatogli da De Laurentiis) vestito da scolaretto: «Eccola lì, Fefè! La grande fabbricante dissolvitrice di nubi! Eccola tutta lì!»…

A persiane chiuse

Ogni film di Fellini è un’avventura, una sorta di dantesco viaggio che, una volta attraversate malmostose acque stigee, ti porta dinanzi al trono dell’Autore. Pare, dagli amorevoli ricordi di Tullio Pinelli, di Ennio Flaiano e di Tullio Kezich, amici (e, a volte, nemici) di una vita, anche le infinite fasi di pre-produzione, avessero un qualcosa di avventuroso, di meravigliosamente irresponsabile, non dissimili per questo dalle celeberrime “zingarate” di Amici miei… Infinite scorribande su e giù per lo Stivale, interminabili pranzi in locande sperdute, e tappe obbligate presso medium, maghi, santoni, come il torinese Gustavo Adolfo Rol, senza il cui benestare Fellini manco lo cominciava un film (come accadde col Mastorna, sua personale tela di Penelope). E questa pratica “nomade”, ilarmente errabonda, pare abbia avuto inizio fin dai primissimi anni, quando Fellini si arrabattava fra mille sceneggiature e collaborazioni. Ed è proprio per uno di questi progetti, il film Persiane chiuse (1950) che l’inseparabile coppia Fellini & Pinelli organizzerà un tour in alcune delle più celebri case di tolleranza di Torino e di Genova. I due, poi, non firmeranno la sceneggiatura: ma è innegabile che il ruolo dell’innocente prostituta, interpretato dalla Giulietta Masina, è farina del sacco del grande regista. Lo conferma anche il fatto che la minuta puttana nel film venga chiamata “Pippo”, nom de plume che nell’intimità Fellini appioppava alla moglie. Si potrebbe quasi azzardare che, proprio grazie a Pippo, nasce la lenta metamorfosi che porterà la Masina a indossare i panni di Gelsomina e poi, della prostituta Cabiria, in “un misto di clownesco triste e allegro, di personaggio triste e perdente, di creatura elementare e complessa, di maschera comica e tragica” (Ennio Bispuri). Non è un caso che lo stesso “apologeta” Tullio Kezich definirà la dolcissima Cabiria come “la prostituta più assessuata della storia del cinema”.

Cabiria va in città

Durante la fase di preparazione di Le notti di Cabiria il nostro “Moraldo in città” scopre una Roma umorale e notturna a lui assolutamente sconosciuta. Giri interminabili sulla su Chevrolet nera attraverso le lande sconosciute di Guidonia, di Pietralata, e dell’Idroscalo di Ostia… Ad accompagnarlo un giovane allampanato, Pier Paolo Pasolini: sarà lui a tradurre in romanesco i dialoghi del copione del film, fra i mugugni del co-sceneggiatore Ennio Flaiano (che detesta l’autore di Ragazzi di vita) e l’attonita perplessità di Giulietta che considera Pasolini un “corruttore di ragazzi”… Della Roma ferina e “primaria” cantata da Pasolini nel Cabiria, sorta di apologia sulla Grazia che ostinatamente accarezza le brutture del mondo come per lenirne le ferite, non resta nulla. Ma Fellini se ne ricorderà, eccome, in una sorta di allucinato sberleffo all’ex-amico, perduto dopo che la “Federiz” (casa di produzione fondata dal regista con Angelo Rizzoli) si rifiuterà sdegnosamente di realizzare Accattone: in Block-notes di un regista (1969), bozzetto autobiografico realizzato per l’americana N.B.C., il Grande Mistificatore (per dirla con Pasolini) inserisce una scena di battuage omosessuale fra gli anfratti del Colosseo, andando ben oltre il benevolo bozzettismo di Caprioli nell’incipit di Splendori e miserie di Madame Royale (1970): una sequenza modernissima e sincopata, tutta macchina a mano, in cui Fellini naviga ferocemente in un caravanserraglio di travestiti orrendamente pittati, di checche claudicanti e ottuagenarie, di dinoccolati “ragazzi di vita” con una mano sulla patta e una sul coltello a serramanico… E il tutto, fra i resti fatiscenti e sbrecciati del monumento circense fatto costruire dall’imperatore Vespasiano… Le porte della Suburra si son spalancate e per Fellini sarà impossibile tornare indietro…

E la Roma di oggi?”

Nel cuore di Roma (1972), fra i ruderi dell’Appia antica, in una notte avvolta dal sudario delle nebbie, fuoriesce da una macchina una prostituta maestosa, immensa, dallo sguardo fiero (la leggendaria “Bomba” di cui Pasolini parlava ossessivamente nelle peregrinazioni ai tempi di Cabiria?) che sprezzante volge lo sguardo alla città intera: un simbolo della città? Oltre che dell’arrogante sessualità delle puttane, che da sempre terrorizza e affascina Fellini. Di lì a poco, nello stream of consciousness del film ecco fuoriuscire dalla garza dei ricordi i bordelli della Roma del Fascio. Prima quello popolare, uno stanzone bigio, ove un manipolo di tarantolate si abbandona a cachinni e squadernamenti ginecologici ad uso e consumo dei clienti che sembrano terrorizzati da quelle Erinni, fomentate da una tenutaria con tanto di disinfettante in mano. «Tutta una tipologia da bestiario umano, in un’atmosfera di aggressvità reciproca tra donne-merci e clienti», sottolineava Kezich: il discorso non cambia nel “bordello di lusso”: tutto è più composto, gli arredi occhieggiano al “Liberty”, ma ovunque regna un’aria di inequivicabile mestizia, resa ancor più sublimata da interminabili silenzi. E il sesso? Assente, non pervenuto, come in tutta l’opera Felliniana, che raggiunge il suo zenit nella rappresentazione ectoplasmatica di un’ennesima casa di tolleranza, all’interno di La città delle donne, che rimanda al Museo delle Cere: una maitresse, osceno automa mummificato («Anduma, futuma, ciavuma, bei fioj», ripete come una bambola meccanica) anticipa l’arrivo di un’altra pachidermica puttana che, con i suoi passi di granito, fa tremar le pareti di cartapesta, avviandosi all’ennesimo coitus interruptus di quest’opera, sinceramente autobiografica. Ai limiti dello strazio.