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Spaceman

2024
REGIA:
Johan Renck
CAST:
Adam Sandler (Jakub Procházka)
Carey Mulligan (Lenka Procházka)
Kunal Nayyar (Peter)

Il nostro giudizio

Spaceman è un film del 2024, diretto da Johan Renck.

Cos’hanno in comune Adam Sandler, un ragno gigante e l’ignoto spazio profondo? Beh, a rigor di logica proprio nulla, giusto? Ma se provassimo a chiedere ad un eclettico creator post rinascimentale come Johan Renck – già solidamente al comando di una serie letteralmente esplosiva come Chernobyl – lui ci dirà che, strano ma vero, facendo fede al celeberrimo motto surrealista una qualche bislacca connessione parrebbe proprio legare indissolubilmente questi tre ossimorici ingredienti. E non serve certo spingersi verso l’infinito e oltre per scovare le origini di una tale convinzione, poiché basterebbe prendere un romanzo già di per sé filosoficamente ermetico come Spaceman fo Bohemia di Jaroslav Kalfar e convertirlo in un’odissea fantascientifica tanto grottesca quanto densamente esistenziale. D’altronde la curiosa esperienza offerta da un titolo come Spaceman s’innesta perfettamente all’interno di quella sci-fi 3.0 che, da ormai un decennio abbondante a questa parte, con buona pace di qualche residuale Guerra Stellare e della maestosa ombra lunga di parecchie Dune all’orizzonte pare aver scelto di sacrificare spade laser ed imperi galattici in favore di un’intima indagine sullo spazio più metaforico che fisico entro cui arrancano gli uomini e le donne celati dietro caschi e tute pressurizzate. Ed è proprio un Man, ancor prima che uno Spaceman, colui che anti-gravita con i propri complessi ed insicurezze da ben 189 giorni a bordo della prima missione spaziale patrocinata dalla piccola e fiera Repubblica Ceca, con il compito di battere sul tempo i lontani cuginetti sudcoreani nel far luce sulla misteriosa origine di un’imponente nube stellare giunta da ormai quattro anni in prossimità della Terra.

Ma, a dirla tutta, il nostro stralunato Jakub Procházka non è soltanto un semplice First Man, quanto piuttosto un Mr. Lonely fatto e finito. O, per dirla come l’intraprendente supervisore capo Tuma (Isabella Rossellini), “l’uomo più solo del mondo”. Ed è proprio a causa di questa solitudine, condita dal peso di un passato e di un presente quanto mai dolorosi, che la martoriata coscienza del nostro cosmonauta allo sbaraglio finirà per coagularsi non in un collodiano grillo ma bensì in un saramaghiano aracnide ciarliero e decisamente troppo cresciuto; non certo un villeneuveiano Enemy, quanto piuttosto un provvidenziale confidente, prontamente ribattezzato Hanus, sulla cui allucinatoria o extraterrestre natura non sarà tuttavia così facile discernere. Sarà dunque questo inaspettato e alquanto erudito visitatore From Outer (Mind)Space ad intavolare – attraverso l’ipnotica voce originale di Paul Dano – un’intensa quanto bizzarra seduta psicoanalitica di un’ora e quaranta a gravità zero, dando l’opportunità all’ormai (s)perduto Jakub di metabolizzare, seppur a distanza di settecento milioni di chilometri dall’amato globo terracqueo, l’ormai deteriorato rapporto con l’amata moglie Lenka (Carey Mulligan), le insicurezze di una seconda prossima paternità – vissuta con la medesima inconscia paura del surreale Henry Spencer del lynchano Eraserhead –  e il peso delle indicibili colpe commesse dal defunto padre durante gli oscuri anni della dittatura comunista. Scritto e letto in questi termini, Spaceman parrebbe proprio uno stranissimo oggetto filmico non meglio identificato, plasmato nella forma di un kammerspiel – meglio forse un kapselspiel – sotto le mentite spoglie di un quasi one man show con cui un Adam Sandler dolente, introspettivo e inconsciamente egoista quanto il George Simmons del dolceamaro Funny People dimostra nuovamente di potersi tranquillamente smarcare dalle goliardiche maschere da tenero imbecillotto targate Happy Madison per sfoderare, all’occorrenza, un bel paio di Diamanti grezzi.

Ma, al netto di una filosofeggiante seriosità di fondo – che tanto ha certamente contribuito alla discreta accoglienza in anteprima sul grande schermo della 74a Berlinale, prima del fatidico approdo nel bulimico catalogo Netflix – è in effetti la weirdness la miglior etichetta che si potrebbe affibbiare ad una Space Odyssey partorita da una così strampalata premessa; perfettamente incarnata da un kafkiano protagonista lost in time e lost in space disposto a intavolare veri e propri duelli retorici sul senso profondo dell’amore e dell’esistenza con un dotto Aragog, ingaggiando nel mentre accaniti tête-à-tête con la fossa biologica di bordo e svolazzando in polo e bermuda per gli sberluccianti anfratti di un’anacronistica navicella assemblata con gli analogici residuati dell’evidentemente mai smaltita Guerra Fredda. Un personaggio decisamente meno maturo ed empatico del suo zampettante compagno di viaggio, pronto ad entrare di diritto nell’ormai nutrita schiera di mentalmente ed emotivamente disturbati cosmonauti che, al di fuori del quadrilatero della fiction, difficilmente supererebbero il test psicoattitudinale per poter guidare anche solo un trattore. Ma laddove il peso del lutto della Sandra Bullock di Gravity e la carenza di amore paterno del Brad Pitt di Ad Astra fungevano da puro e semplice McGuffin al fanta-scientifico viaggio dell’(anti)eroe, i dubbi e le incertezze covate dal nostro afflitto Spaceman divengono invece il fulcro di un universo narrativo che, seppur rischiando in più occasioni di collassare nel pericoloso buco nero dell’autocommiserazione, grazie ad una qualche arcana congiuntura cosmica finisce per ridurre l’intero succo del discorso a quella pura e semplice Storia di un matrimonio che già il buon Baumbach era riuscito, senza particolari voli pindarici o intergalattici, a tematizzare con piedi decisamente ben meglio piantati a Terra.