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Hellraiser

2022
REGIA:
David Bruckner
CAST:
Odessa A'zion (Riley McKendry)
Jamie Clayton (Hell Priest)
Adam Faison (Colin)

Il nostro giudizio

Hellraiser è un film del 2022, diretto da David Bruckner.

Nella vita non esistono certezze. Tranne il fatto che, quando verrà il fatidico momento, ciascuno dovrà confrontarsi con il proprio Inferno. Che sia l’oscuro e goticheggiante Altrove abitato dai pallidi pronipoti di Carnival of Souls immaginato da James Wan piuttosto che il nebbioso e desolato Aldilà fulciano, l’inesorabile confronto finale con l’Oltremondo rischia di rivelarsi qualcosa di ben più terribile rispetto a ciò i testi sacri ci hanno tramandato per generazioni. Ed è proprio grazie a quel viscerale e visionario pseudobiblium esotericamente intitolato Schiavi dell’Inferno che il Gran Maestro Venerabile Clive Barker ci ha donato l’immagine tutt’altro che metaforica di una dantesca e sadomasochistica Dimensione del Supplizio, nella quale piacere e dolore sono destinati a coesistere senza soluzione di continuità per i secoli dei secoli, sotto l’occhio avido e vigile di mostruosi supplizianti da tutti ormai conosciuti come Cenobiti. Sono infatti questi esoterici esploratori delle regioni più recondite dell’esperienza, angelici e demoniaci al tempo stesso, i veri protagonisti di una delle saghe più iconiche e viscerali del new horror di fine Ventesimo secolo, giunta stancamente oltre le soglie del secondo Millennio con ben dieci capitoli sul groppone, tra pochi iniziali alti e troppi bassi seguiti che hanno seriamente e ignobilmente rischiato di farla sprofondare nel desolante oblio racchiuso nell’angusto Cubo di Lemarchand da cui essa stessa trae alchemicamente origine. Ma ecco che, dopo aver vagato per oltre quindici anni, transitando brevemente fra le mani della coppia Maury-Bustillo e rischiando addirittura di cadere nelle grinfie di quel pedestre di Patrick Lussier, la magica e pericolosa patata bollente di Hellraiser ha finito per essere raccolta e più che degnamente cucinata da un talentuoso e onestissimo nome come quello David Bruckner.

Uno dei pochi a possedere il giusto estro visivo e la sufficiente poetica immaginifica necessari a resuscitare e rinfrescare degnamente l’intero infernale universo barkeriano attraverso un sequel che, riallacciandosi fortemente alla mitologia del primissimo capitolo e della sua stessa matrice letteraria, si propone di rimescolare e ridistribuire tutt’altro che incoerentemente le esoteriche carte in tavola, come reboot comanda. Insomma, un lega sequel fatto e finito, come direbbero i nuovi cine-nerds rappresentanti della temibile Generazione Z, con un titolo fieramente privo di quei vetusti numeri progressivi tanto di moda nelle epopee orrorifiche anni ’80 e intenzionato piuttosto a metter da parte una volta per tutte il mezzo scempio operato dalla malfamata trilogia di Rick Bota così come la definitiva ecatombe consumatasi all’ombra di Revelation e Judgement. Ne scaturisce dunque, grazie all’ottimo contributo delle sapienti penne di Ben Collins, Luke Piotrowsli e del sempre ben accetto David S. Goyer, un racconto finalmente (e fieramente) cupo, malato ed esteticamente affascinante, incentrato sulla disperata vicenda della giovane Riley (Odessa A’zion), ex tossicodipendente ed ex alcolista – forse tutt’altro che “ex” – tornata a vivere assieme al fratello Matt (Brandon Flynn), al di lui compagno Colin (Adam Faison) e alla loro coinquilina Nora (Adolfe Hinds), pronta tuttavia a ricadere nell’antico vizio accettando la proposta del fidanzato Trevor (Drew Starkey) di organizzare un furto in un vecchio deposito abbandonato di proprietà di tal Roland Voight (Goran Višnjić), misterioso riccastro deceduto in circostanze altrettanto misteriose dopo una vita intera passata a collezionare cimeli di occulta fama. Sfortuna vuole che il bottino sgraffignato dai nostri altro non sia che la celeberrima Configurazione dei Lamenti: la temibile ed esoterica scatola degli enigmi che, una volta attivata, marchierà letteralmente con sangue le proprie incaute vittime, risvegliando l’intera infernale orda dei Supplizianti desiderosi più che mai di reclutare freschi e fragranti adepti a cui offrire gli eterni piaceri e gli eterni dolori del regno di Leviathan.

Pensa bene a ciò che desideri, poiché potresti avere la disgrazia di ottenerlo. Questo il saggio insegnamento del fu Oscar Wilde che nessuno dei molti stolti personaggi che hanno popolato l’immortale saga barkeriana fin dal 1987 sembra aver mai assorbito per davvero. Ed è per questo che, fin dalle primissime battute di questo nuovo ipnotico e carnalissimo Hellraiser, il navigato e affezionato spettatore, credendo erroneamente che la maledetta solfa si stia per apparecchiare perpetuamente uguale, non potrà che rimanere quantomeno sorpreso dinnanzi alle suggestive acrobazie geometriche compiute da un innovativo Cubo di Lemarchand capace stavolta non solo di moltiplicare le proprie configurazioni e di interagire a sorpresa con la realtà stessa – così come già mirabilmente messo in scena da Bruckner negli inquietanti e surrealisti giochi visivi in puro stile escheriano di The Night House – ma persino di penetrare viscere e membra così da richiedere un autentico e inviolabile debito di sangue. Un mefistofelico debito  che è però in primis della carne, attraverso cui richiamare a raccolta androgino plotone di Cenobiti dal restyling grandguignolescamente rinnovato, capitanati da un sensualissimo neo Pinhead con gli algidi e terrificanti lineamenti di Jamie Clayton, benedetta dall’unico e inimitabile Doug Bradley in persona e incarnazione di come la parità di genere sembra aver fatto finalmente capolino persino fra gli infernali lidi. Una regia solida, visionaria, ematica e oggettivamente disturbante quella di Bruckner, ripulita quasi interamente da inutili virtuosismi o pindarici svolazzi e supportata finalmente da una sceneggiatura quantomeno degna di essere chiamata tale, vogliosa di restituirci appieno tutto il dolore e l’oscurità che da sempre hanno covato fra le pagine e i fotogrammi della mostruosa creatura partorita dalla mente malata del buon Clive. Non certo timorosa di compiere, forse, il proverbiale passo più lungo della gamba, spingendosi addirittura a mostrarci, in un epilogo fra i più dolenti, poetici e, perché no, in un certo qual modo anche religiosi di questa intera sfortunata saga, il modo con il quale piacere e dolore possono forgiare i nuovi custodi del Regno del Supplizio.