Featured Image

Beau ha paura

2023
Titolo Originale:
Beau is Afraid
REGIA:
Ari Aster
CAST:
Joaquin Phoenix (Beau Wessermann)
Armen Nahapetian (Beau da giovane)
James Cvetkovski (Beau da bambino)

Il nostro giudizio

Beau ha paura è un film del 2023, diretto da Ari Aster.

Beau ha paura, questo è poco ma sicuro. Una paura fottuta. Paura della morte, dei propri simili e persino della propria madre. Anche perché, detto tra noi, Beau ha una gran paura di fottere e di essere fottuto, dalla vita così come dalle donne. E come il suo Beau, Ari Aster la paura la conosce bene, forse fin troppo. Al punto da mandare letteralmente a farsi fottere ogni pronostico o aspettativa per confezionare quella che, sino ad oggi, appare come la sua opera più ermetica, barocca e indubbiamente intimista. Il suo traboccante vaso di Pandora, il suo traumatico barile di Amontillado e, secondo alcuni, addirittura il suo kubrickiano Barry Lyndon. Un film che, pare brutto e anche un po’ snob a dirsi, non è certo per tutti. Men che meno per gli asteriani primissima maniera, desiderosi di gustarsi un ennesimo esoterico quadretto familiare modello Hereditary piuttosto che un novello incubo folkloristico in odor di Midsommar ma costretti, loro malgrado, a sbattere il grugno contro una surreale Odissea di tre mastodontiche ed allegoriche orette, nella quale il confine fra intrattenimento e trattenimento finisce inevitabilmente per perdersi nelle calde acque del fiume Lete. D’altronde c’è poco da dirsi e da farsi, poiché Beau ha paura questo è: un viscerale e traumatico sequestro di persona senza possibilità di riscatto né di appello.

Una dantesca discesa nell’infernale selva oscura dell’ipocondria e del senso di colpa che il complessato protagonista – racchiuso nel corpo imbolsito e nel volto escoriato, nervoso e ferito di uno straordinario Joaquin Phoenix – si trova costretto sin dall’infanzia a dover percorrere in completa e dolorosa solitudine, senza la provvidenziale guida di alcun buon Virgilio. Un autentico Mr. Nobody insomma, prigioniero di un post-apocalittico microcosmo urbano denso e delirante tanto quanto un allucinogeno dipinto di Bosch, capace di attraversare le tre età di uno spazio-tempo che è in realtà più uno spazio-mente, dalla culla alla tomba così come il celeberrimo enigma della Sfinge. Un viaggio dell’(anti)eroe in tre atti, ciascuno catarticamente chiosato da uno svenimento che è anche e soprattutto metaforica morte con conseguente resurrezione. Una kafkiana Via Crucis, popolata da curiosi e inquietanti personaggi pirandelliani in cerca, più che del benamato Autore, di un difficile se non impossibile incontro con il nostro Cristo Maledetto, Figlio non di Dio ma di quell’amata e (inconsciamente) odiata Madre! aronofskiana a cui tenterà disperatamente, per oltre centottanta minuti, di portare doveroso saluto. Ma così come la tragedia greca da sempre c’insegna, il Fato è più che mai beffardo, sia che si tratti di una sibillina chiave misteriosamente scomparsa (o rubata) piuttosto che di un lampadario di Damocle staccatosi dal soffitto sbagliato al momento sbagliato, entrambi capaci di ostacolare il compiersi della dolente salita al Calvario del nostro pauroso e impaurito Ulisse, trasformando il suo cammino della speranza in un’inaspettata visita di commiato.

E così come il suo disorientato Beau, prigioniero senza alcuna via d’uscita di un criptico loop tanto spaziale quanto mentale, anche il buon Aster non può far altro che piegarsi e  ripiegarsi nella serpentina allegoria psicoanalitica del proprio U Turn, attraversando le subliminali geografie oniriche celate Under the Silver Lake, alla disperata ricerca di un modo per attenuare il persistente Rumore bianco dell’incomunicabilità che porterà a più riprese l’autoflagellante protagonista di questa infernale Synecdoche, New York alla ricerca delle proprie Strade perdute, avendo come cartina di tornasole un unico incrollabile mantra: Sto pensando di finirla qui. Ma laddove gli esimi colleghi Mitchell, Baumbach e Kaufman – con l’unica eccezione del vate Lynch – si trovavano inevitabilmente a perdere il controllo delle rispettive brulicanti creaturine e a sprofondare così nel buco nero dell’intellegibilità, pur rimanendo saldamente ancorato ai vertici del proprio ermetico Triangle of Sadness lo scaltro Aster riesce a mantenere il timone quasi sempre a dritta, passando attraverso le oscure acque di un orrore tanto viscerale quanto inevitabilmente fastidioso ma ritrovandosi improvvisamente a navigare nel mezzo di un grottesco e perturbante humor a denti strettissimi che solo un pallido Östlund potrebbe forse comprendere. Un’affascinante, destabilizzante e, certamente ai più, incomprensibile Magnum Opus, della quale si potrebbe disquisire per ore senza mai davvero scalfirne anche solo la superficie. Un Viaggio al termine della vita più che Della Notte, forse percorribile sino in fondo soltanto dal suo stesso autore e inevitabilmente destinato a condurci, così come lo zulawskiano Possession, al tutt’altro che metaforico abbraccio con i nostri mostruosi demoni. D’altronde, scava che ti riscava, alla fine c’è davvero ben poco da capire: Beau ha paura, questo è quanto. E chi non l’avrebbe? Beau è in ognuno di noi. Beau siamo noi. Je suis Beau! E chi non è d’accordo, come suol dire il caro Aster, vada pure a farsi fottere!