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Rumore bianco

2022
Titolo Originale:
White Noise
REGIA:
Noah Baumbach
CAST:
Adam Driver (Jack Gladney)
Greta Gerwig (Babette Gladney)
Don Cheadle (Murray Siskind)

Il nostro giudizio

Rumore bianco (White Noise) è un film del 2022 diretto da Noah Baumbach.

Cosa ci attrae degli imbonitori che aggregano folle adoranti sotto il segno del loro carisma ineffabile? La paura della morte, o meglio, la paura che, al di fuori di quelle masse inneggianti, potremmo avvertire maggiormente il puzzo del tristo mietitore, mentre invece, accalcati, storditi e annichiliti nel seno di una massa adorante, possiamo reprimere quel lezzo, annegare la paura e sentirci, per qualche istante, invincibili e immortali. Con questi concetti il professor Jack Gladney, incarnato da un allucinato Adam Driver, tiene a sua volta in pugno un’audience di studenti e colleghi, ai quali sciorina le sue argute intuizioni sul controllo delle masse e sulle analogie tra personalità carismatiche come Elvis e Hitler. Di quest’ultimo è infatti il massimo esperto americano. Rumore bianco, film di apertura di Venezia 2022, diretto da Noah Baumbach, prodotto da Netflix, tratto dall’omonimo romanzo-cult di Don De Lillo, intercetta perfettamente lo spirito dei tempi che stiamo vivendo, permeati da un costante sentore di catastrofe imminente. Calato però all’interno di una storia dai toni e ritmi altalenanti che sfiora, in modo non sempre centrato, il genere catastrofico, il noir, l’onirico, l’horror, mettendo tanta, troppa, carne al fuoco. La vicenda, ambientata negli anni ‘80 in un paesino del Midwest, si incentra sulla famiglia del professor Gladney e su una serie di eventi che ne minano l’equilibrio e l’integrità, a cominciare da una fuga di gas tossico, fino alla dipendenza, da parte della moglie Babette (Greta Gerwig), nei confronti di misteriose pillole, che sembrano sollevarla dalla sua patologica paura della morte. Il tutto è punteggiato da frequenti visite al supermercato.

Quest’ultimo, con le sue abbacinanti luci bianche e le merci iper-colorate, ricorda il Bardo, ovvero quella condizione di sospensione in cui, secondo le filosofie orientali, le anime si troverebbero tra la morte e la rinascita, caratterizzata da step di diversi colori e da una accecante luce bianca. Il supermarket si fa metafora della perenne condizione esistenziale di sospensione in cui siamo tutti bloccati, anestetizzati dal Rumore bianco del titolo, colonna sonora di una vita spesa ad eludere le questioni importanti e a ritenere, superficialmente, di appartenere ad una classe sociale che non verrà mai toccata dalle tragedie dell’esistenza. Questa saccente affermazione verrà smentita dai fatti, cioè dal diffondersi di una nube di gas tossico, liberatasi a seguito di uno scontro tra un camion e un treno. D’impatto il montaggio alternato tra l’approssimarsi dell’autocisterna ai binari, e la lezione di Gladney su Hitler. Efficace messa in immagini di una sincronicità junghiana, in cui l’inconscio di Gladney, gonfio di sé, prorompe negli eventi disastrosi del passaggio a livello, in una sorprendente affinità di senso tra mondo interiore ed esteriore.

Qui inizia forse la parte la migliore del film, in cui il catastrophic-movie viene declinato secondo i topoi del caso: il panico collettivo, la famiglia che si disgrega e poi si riunisce, la rocambolesca fuga in auto. Si distingue per una consapevolezza meta, con i personaggi affascinati dalla visione apocalittica della nube tossica, illuminata di notte dai fulmini. Archiviata frettolosamente la catastrofe, il matrimonio dei Gladney va in crisi, sia per la dipendenza di Babette dal Dylar, pillola che dovrebbe guarire dalla paura delle morte, sia per una relazione extra-coniugale. Si dipana qui l’elemento noir, che sfocerà in situazioni paradossali echeggianti i migliori film dei Coen. Infine la spruzzata di horror, nel momento in cui Jack è preda di incubi e visioni che prefigurano la dipendenza e il tradimento di Babette. Un frullato di generi White Noise, in cui non tutto trova la propria collocazione, equilibrio e tono, mentre Baumbach è più preso dall’ansia di infilare nel film i temi esistenziali di De Lillo, che non di raccontare una storia. Rimane la puntualità nel cogliere le angosce collettive del presente.