Manuela Zero: un’arte polivalente

A colloquio con la protagonista del corto Cinquantadue
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Cinquantadue è il numero che identifica l’articolo del Codice penale in materia di autodifesa. E Cinquantadue è il titolo del cortometraggio, presentato alla recente Festa del Cinema di Roma, diretto da Sebastiano Casella  e Andrea Bernardini, con protagonista, accanto a Maurizio Tesei, Manuela Zero. Musicista, cantante, showgirl, ballerina, attrice di cinema e teatro, Manuela Zero è il fulcro del corto, nel ruolo di Agnese, una donna pressoché annientata dalla violenza del partner, ma con un piano per spezzare quel giogo…

Ho visto il cortometraggio, Cinquantadue, del quale sei protagonista. Direi che è folgorante, molto potente. E poi innesca tutta una serie di domande, che mi pare d’aver capito che gli autori hanno voluto restassero tali. Nel senso che c’è una certa quota, diciamo, di ambiguità, soprattutto legata al finale…. Ti chiedo, intanto, come sei stata coinvolta…

Sono stata chiamata da Sebastiano Casella e Andrea Bernardini, i registi, tramite un loro amico, che gli ha fatto il mio nome, quindi loro mi hanno chiamato al telefono, mi hanno girato la sceneggiatura e abbiamo fatto degli incontri. Possiamo chiamarli provini? Diciamo degli incontri, meglio: in cui abbiamo parlato. In realtà, ho apprezzato molto che loro non abbiano fatto provini “canonici” su questo personaggio. Sono state delle lunghe e intense chiacchierate, per capire se c’era la voglia, da parte mia, di affrontare un personaggio del genere. Perché un personaggio del genere non lo puoi preparare con dei self tapes, come fanno tutti, oggi.

Quindi, c’è stata la conoscenza con i due autori e un lungo intercambio a seguire…

Esatto. Noi ci siamo conosciuti, io e loro, due anni fa, cioè parecchio tempo fa. E, con molta calma, abbiamo iniziato a parlare, abbiamo chiacchierato, abbiamo fatto anche delle letture. Poi, alla fine, sono entrata nel progetto. Voglio citare Tommaso Agnese, che ho coinvolto e che ci ha aiutato tantissimo, per realizzarlo anche artisticamente. Abbiamo fatte le prove, tutto quanto e siamo riusciti a raccontare questa donna.

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Che reazione hai avuto alla prima lettura del copione? È una domanda banale, ma essendo sviluppato in modo così forte e così originale… Ed è proprio questo che colpisce. Il tema è il tema oggi sugli scudi, naturalmente, della violenza femminile, eccetera… Però è lo svolgimento che è inusuale, il sottotesto, chiamiamolo così, per usare un parolone. Dunque, qual è stata la tua reazione, alla prima lettura…?

Non è affatto una domanda banale: allora, la mia reazione, la prima cosa che mi sono chiesta, è stata: perché questa donna non chiama la polizia?

E infatti è questo uno dei punti focali…

La prima domanda è stata proprio questa. E mi dava molto fastidio questa cosa, mi innervosiva parecchio, che lei non chiamasse la polizia. E poi? E poi ho accettato il progetto proprio per questo motivo, cioè perché loro vogliono raccontare come mai la donna non chiama la polizia, semplicemente… Raccontano in quale stato d’animo ci si viene a trovare quando si subisce questa tipologia di violenza. Non si è capaci di essere presenti a se stesse, si è come uno zombi; Cinquantadue racconta una donna “che non c’è”, che ha perso tutto, una donna che sta realmente nel vuoto, ed è volutamente esasperato, questo vuoto. L’immobilità che abbiamo creato è enfatizzata, quasi finta, perché volevamo fosse molto presente a tutti il fatto che una donna che subisce una violenza del genere, sta nel buio. Nel buio più profondo.

Certo, non riesce a reagire, almeno in apparenza…

E poi ho accettato questo progetto perché racconta di una donna che inventa qualcosa… So bene che è un aspetto che non viene percepito da tutti, ma mi piace molto… La donna si inventa di aver subito una sopruso, per far uscire di casa il suo uomo, che è gli arresti domiciliari. Lui esce di casa e lei non lo salva… e anche questo è il motivo per il quale ho accettato di fare il corto. Perché? Perché racconta, in maniera coraggiosa, quello che potrebbe accadere. E, soprattutto, racconta l’Italia di oggi, dove nelle metro sentiamo chiamate all’1522, il numero antiviolenza, ma ci siamo svegliati un po’ tardi. Purtroppo, quando una donna denuncia, subisce una doppia violenza: hai già subito una violenza, poi subisci un’ulteriore violenza, quando devi dimostrare di avere subito la violenza. Un paradosso. Pochi giorni fa ho visto in televisione Anna Foglietta, la quale se la prendeva, giustamente, con il fatto che l’impressione prevalente nell’opinione pubblica, purtroppo, è che noi donne è come se ci volessimo costantemente vendicare degli uomini e che quindi li denunciamo per una sorta di ritorsione. Questo giudizio è diffuso. Io ho parlato con tante donne prima di fare questo corto e molte di loro ti rispondono che hanno paura di andare a denunciare, perché poi la giustizia è lenta, perché bisogna avere tante prove, perché c’è sempre uno sguardo che non è limpido, da parte di chi ti ascolta.

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Mi fa piacere che enfatizzi questa cosa che secondo me non tutti alla fine capiscono, perché è molto sottile. Il fatto che lei, tra virgolette, decida a un certo punto di fotterlo…

Sì, ma infatti, c’è un momento del corto in cui lui le chiede “Quanti sono…?” e lei, rispondendogli, cambia sguardo. Questa variazione di sguardo, è stata una scelta voluta dai registi, ed è molto sottile… In realtà, la gente quando vede questo corto si incazza. Le donne mi hanno raccontato che di fronte a Cinquantadue, avvertono un senso di appartenenza e allo stesso tempo di rabbia: e questo è quello che intende fare scaturire il corto, che non vuole troppo andare a “raccontare”, a “spiegare”. Vuole fissare un momento emotivo, forte, importante, uno stato d’animo. E vuole lasciare alla gente un’apertura, di poter tornare a casa e chiedersi: “Aspetta, ma perché lei fa così, perché si comporta in quel modo…?”.

Ho letto un’intervista dei registi che dicevano proprio che il loro scopo era questo, cioè di non raccontare in maniera plateale tutto, di lasciare dei fili sospesi…

Noi abbiamo sempre bisogno di spiegare tutto: qui, per una volta, non si vuole spiegare tutto…

Immagino non sia facile calarsi in una protagonista del genere. Una fa l’attrice, quindi deve saperlo fare, ma non credo sia semplice, soprattutto se non si è mai vissuta sulla propria pelle una situazione così violenta. Prima hai usato il paragone di uno zombi… Quando lei cammina, alla fine del corto, mi è balzato all’occhio proprio questo riferimento. Una zombi… Riuscire a entrare in questo mood e a trasmetterlo, non penso sia facilissimo…

No, è complicatissimo. È stato complicatissimo, ho lavorato molto sull’oppressione. Già nelle prove, usavamo degli spazi bui, molto piccoli. Quindi ho fatto un lavoro, prima di tutto, fisico. Occorreva calibrare bene il modo in cui cammina questa donna, trasmettere quanto è stanca. E fisicamente ricordo che ero stanchissima in quei giorni. Quando mi sono rivista, il risultato ha spaventato anche me. Io parto sempre da questo, quando lavoro sui miei personaggi: parto dal corpo per arrivare all’anima, il contrario di quel che si fa normalmente… e per me la cosa funziona. Parlando con le donne che hanno subito violenza, tutte mi hanno raccontato dell’oppressione, dell’oppressione  interiore che provano… ed è una cosa di cui nessuno parla. Ed è la cosa che più ti distrugge: ti senti schiacciata nella tua vita e non hai più forza, è come se stessi sotto psicofarmaci. Io ho pensato alla protagonista come a una donna incapace assolutamente di fare qualunque cosa. Ma poi, a un certo punto, proprio la disperazione totale le permette di organizzare un piano. E anche la follia, perché noi troviamo Adele in un momento in cui lei non è perfettamente cosciente di se stessa, ma nel suo cervello scatta qualcosa. È una donna che si salva in questo modo perché è disperata. Sono tante le sue motivazioni, ma io ho costruito il personaggio partendo dall’oppressione. Quando siamo arrivati a girare il corto, è stato fatto tutto di fila: 15 minuti di seguito… e non mi è mi era mai successo in tutta la vita. Forse più di 15 minuti, perché poi qui lì ci sono dei tagli.

Quindi in piano sequenza, praticamente senza stacchi?

Sì, sì, senza stacchi, seduti al tavolo, io e Maurizio Tesei a parlare. I registi hanno poi deciso di limitare la parte dialogata e io sono perfettamente d’accordo, perché si crea ancora più il senso di oppressione della donna. Ma lì erano 15 erotti di piano sequenza totale. Durante la camminata che dici tu, io ero entrata totalmente in quello stato: non ci sono trucchi lì, ero proprio così. Anche grazie ai registi, grazie a Tommaso, perché sul set c’era un grande silenzio, un grande rispetto. Mi hanno concesso un sacco di tempo per prepararmi, e se non ero pronta, non si girava. Non succede mai che siano tutti così attenti, su un set. Volevano fare tutti un lavoro rispettoso.

Quand’è che avete girato il corto?

Un anno fa, nel settembre 2022 mi sembra, forse un po’ prima. Io ho conosciuto loro nel 2021, sì 2022. Abbiamo girato un giorno l’interno e un giorno all’esterno, fine. Ma perché avevamo fatto prove infinite. Siamo arrivati lì e sapevamo tutto: c’era la fotografia di Davide Manca che era perfetta, era tutto perfetto. Quindi siamo arrivati lì e abbiamo girato.

Comunque, riesci a portare qualcosa che arriva in profondità, cioè Agnese è personaggio veramente, veramente potente. Poi, per carità, merito anche sicuramente della regia…

Meno male, sono contenta.

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Manuela Zero e Maurizio Tesei, in Cinquantadue

È la protagonista che ti resta addosso, ti resta negli occhi. Il tema della violenza oggi ormai lo toccano tutti, ma fanno pura fenomenologia: non ti resta niente addosso, mentre questo ti rimane appiccicato…

Mi piace anche come abbiamo lavorato con Silvana Turchi, perché devo dire che è stato un progetto fatto da professionisti. Silvana Zucchi ha fatto i costumi. È stata bravissima perché io, in quel periodo, avevo i capelli biondi, avendo appena girato il mio primo corto, Attack: l’ho scritto e l’ho prodotto io. Avevo questi capelli anni 60, tipo diva, e per distruggere quel look, abbiamo lavorato parecchio. Anche fisicamente, abbiamo lavorato bene.

Attack dunque lo hai scritto e interpretato tu: ma anche diretto?

No, Attack, che ho scritto io, partiva come un videoclip musicale, poi ne abbiamo fatto un corto, con Davide Santi, che è il mio regista-produttore e che collabora con me ad ogni progetto. L’abbiamo messo su Youtube, ed è andato talmente bene che abbiamo deciso di mandarlo ai concorsi. Vincendo, devo dirlo, un sacco di premi. Parla di una ragazza, io, che si incolla al suo ragazzo con l’Attack. Una storia che è assolutamente disfunzionale, però ne parla in una maniera… strizzando un po’ l’occhio agli anni Sessanta. Tra l’altro, questa canzone Attack e questo personaggio di Attack saranno all’interno di un mio progetto che porterò in scena il prossimo anno. Volevo raccontare un po’ i rapporti, e volevo raccontare quanto ci pesa che le cose finiscano. Però volevo farlo a modo mio. Devo dirti che l’argomento ha toccato un sacco di persone, di questa ragazza che si incolla il suo fidanzato: mi hanno scritto in tantissimi dopo averlo visto…

La tua prima esperienza in cinema è stata quella con Abel Ferrara, in Go Go Tales. Poi ho visto che hai fatto una piccola parte per Sollima, in Romanzo criminale….

Sì, ma proprio piccolissima… Adesso entriamo nella mia fantastica vita artistica (ride). Ho fatto tantissime cose…

Infatti, sei eclettica: cantante, ballerina, attrice…. Sai bene che in Italia non è come in America: in Italia devi essere sempre “quello”, fissata in un ruolo o in uno schema. Mentre tu hai spaziato e spazi…

Sì, sì, sì, in Italia è complicatissimo. Io spazio, spazio veramente tanto ed è difficilissimo cercare di arrivare alle persone in questa modalità. Ne parlo sempre con il mio manager, il quale mi dice: “Che tragedia!”. Lui mi conosce molto bene, quindi adesso sta cercando di farmi fare delle cose per dimostrare – perché in Italia bisogna fare questo – che io sia un’attrice.

Questo corto mi pare, tra le altre cose, un biglietto di presentazione di lusso…

Io sono una musicista, e adesso sta uscendo anche il mio primo progetto teatrale, che è scritto da me e che è il mio primo album, al quale tengo tantissimo… un progetto teatrale che porterò in giro. Ma io ho fatto Domenica in, ho fatto cinema, ho fatto teatro, ho fatto questo, ho fatto quell’altro… Nel momento in cui tu hai tutto questo percorso qui, diventi poco credibile in Italia.

Tu pensa! Il paradosso massimo!

Un assurdo! Pensa che ho dovuto eliminare dal mio curriculum delle cose che non potevano funzionare con il film di quello, perché quello poi pensa che io sono una ballerina: una vera assurdità! In quest’ultimo anno sono tornata a lavorare come attrice e mi sono rimessa a fare provini. A un certo punto, avevo deciso di non fare più provini perché mi sono concentrata su altro: volevo scrivere una cosa mia e ci sono riuscita, finalmente. Ci ho impiegato tre anni, perché per scrivere delle cose belle, ci vuole il tempo giusto. Quindi avevo stoppato i provini. Però, devo dire che in quest’anno in cui sono ripartita a farli, e ho preso dei lavori, tutti si chiedevano da dove fossi uscita (ride). Assurdo, sì. Adesso ho fatto una serie con Ricky Tognazzi e Rossella Izzo, Se potessi dirti addio. E Rossella, ai provini, mi guardava pensando che io avessi, tipo, vent’anni! Hai capito? Perché quando spazi e fai altre cose, e magari sai anche recitare, veramente li sconvolgi! Io ho studiato recitazione, non è che non ho studiato… però, questo multi-talento, o comunque multi-studio, perché, ti devo dire la verità, io è una vita che studio, corre il rischio di farti sembrare una marziana (ride). Quest’anno, però, ci sono state delle ottime opportunità per me come attrice, grazie a Cinquantadue e anche con un altro film che adesso sta per uscire.

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Manuela Zero in Attack

Che film è?

È finito, ancora non ne posso parlare, ma è un film importante. Quindi, sembra che stiano capendo che sono anche un’attrice. Anche quando mi hanno vista a teatro, perché ho fatto per due anni tanto teatro, mi venivano poi a dire: “Ah ma io non avevo capito che tu recitavi!”

Il lavoro di cui parlavi, questo tuo progetto, scritto da te, lo porterai in teatro, quindi…

Sì! Usciamo a maggio con un album… che non è un album, di cui vado molto fiera, perché è un audio film… Devo dire che non è mai uscita una cosa così, si tratta di un racconto, tutto collegato, di sei storie… un po’ come faceva Battisti, però con un linguaggio, naturalmente, nuovo, perché comunque è il mio. Ed è un racconto in cui c’è anche l’attrice, che racconta delle cose. Un audio film che ti fa ascoltare le canzoni, quindi lo puoi fruire al buio, con una voce che ti presenta i personaggi che fanno parte della storia, e tutti interagiscono tra loro: è molto bello, devo dire…

Un progetto d’avanguardia, mi pare di capire…

Infatti, pensavo di iscriverlo al Tenco, perché credo abbia un valore. E poi debutto a giugno con lo spettacolo legato a questo album, e mi farò tutto l’inverno dell’anno prossimo: lo porto a Roma, lo porto a Milano, lo porto a Napoli.

Ma la tempra dello spettacolo com’è, comica o drammatica? Mi dicevi che anche canzone e personaggio del tuo corto Attack, li hai inseriti in questo nuovo show…

Direi che è una sfumatura tra il dramma e la comicità. Racconto le storie a modo mio, anche il dolore lo racconto a modo mio: non mi piace andarci dritto, ma tramite storie un po’ felliniane, stando un po’ in aria. Storie che magari ti fanno estremamente ridere e poi invece dietro c’è uno sguardo forte, potente. Racconto, per esempio, di questa donna vecchia…. madonna, mi ammazzeranno per questo spoiler, però te lo dico (ride)… questa donna vecchia che non ha mai fatto l’amore in tutta la sua vita e che quindi praticamente per tutta la vita e per tante motivazioni, non ha mai avvicinato il sesso. Poi racconto di una ragazza che regala il suo cuore al suo fidanzato. E sono tutti personaggi fuori di testa…

Sei attratta proprio dal surreale, da quella dimensione lì…

Mi piace il surreale per raccontare la verità, lo trovo un linguaggio efficace, perché la gente non si spaventa. Alla fine, racconto una storia forte, potente, dietro, e quindi il messaggio ti arriva ancora più profondamente. Perché se tu riesci a far ridere le persone e a farle empatizzare con una storia potente, loro staranno con te. Quindi anche in questo mio album, in questo mio progetto, racconto personaggi che hanno un nome surreale, tutti fuori di testa, però tutti con delle caratteristiche reali, anche se vivono in un mondo in cui stanno un po’ così, in aria: è molto divertente. Un mondo lunare, che però, in realtà, è attaccato alla Terra. Hanno tutti grandissime problematiche, drammi, incredibili, ma loro non lo sanno di averli, e pensano, invece, di essere grandissimi eroi.