Featured Image

Yara. Il true crime

Autore:
Giuseppe Genna
Editore:
Bompiani

Il nostro giudizio

La figura retorica scelta da Giuseppe Genna per raccontare il caso Yara è l’antonomasia. “Il true crime”, si legge in copertina. Ovvero il crimine per eccellenza, quello che ha segnato una svolta nella storia criminale italiana. Tale è il principio di Yara, l’ultimo libro dello scrittore milanese, che da titolo ricostruisce l’omicidio di Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra, Bergamo, e ritrovata uccisa esattamente tre mesi dopo nel famoso campo di Chignolo d’Isola. Inutile qui ricordare la vicenda, ormai universale, storicizzata e già rimessa in scena in forma audiovisiva: prima nel deludente film Yara di Marco Tullio Giordana, poi nella splendida e oscura docu-serie in due parti Sulle tracce dell’assassino: Il caso Yara, a cura di Maria Loi e Flavia Triggiani. A queste si uniscono ricostruzioni librarie portate avanti con vari registri, dal giornalistico al criminologico. Mancava la forma narrativa, e adesso eccola qua.

Quello di Genna, scrive lui stesso in premessa, è un “romanzo documentario” o una “docunarrazione”. Siamo, appunto, nella narrativa: il protagonista immagina di trovarsi a Brembate la sera della sparizione, da qui in poi mescolarsi ai cronisti, giornalisti e avvoltoi assortiti che assediano i personaggi della storia non esitando a saltare sulla preda, ansiosi di offrire il caso mediatico definitivo appena dopo il delitto di Avetrana. Si tratta di un narratore invisibile perché inesistente, che però è plausibile e anzi probabile. Stabilito questo, seppure sia un romanzo, non s’inventa nulla, la ricostruzione del caso è accurata e filologica. Si parte dal luogo, quella porzione di terra lombarda innevata e a zero gradi, in cui non accade mai niente e tutto è sempre uguale, che all’improvviso diventa sfondo del fatto epocale. Per dipanarlo la geografia è fondamentale e Genna la incide nella sua lingua visionaria: “Di fronte al centro, il cimitero. Di faccia al centro, i morti. Impiegare un tempo infinito per attraversare un niente dal centro ai morti”.

Germoglia dunque la storia di Yara, che viene ripercorsa in quattrocento pagine nei personaggi maggiori e minori, nei membri della polizia e aiutanti nelle ricerche, passando per il primo sospettato Mohammed Fikri, fermato per un errore di traduzione, e sfiorando le figure secondarie comprese quelle tragicomiche, o comico-tragiche, come medium e ciarlatani che iniziano a ronzare sul caso. La successione degli eventi la sappiamo: il ritrovamento, l’indagine innovativa, lo screening di massa voluto dalla pm Letizia Ruggeri, l’isolamento del Dna di Ignoto 1, il clamoroso arresto del muratore Massimo Bossetti incastrato proprio dal codice genetico. Il processo e la condanna. Il volto di Yara entra nell’immaginario collettivo e il suo sorriso con l’apparecchio ortodontico diviene il simbolo dell’innocenza perduta. Proprio così lo intende Genna, che conduce il racconto attraverso lo stile allucinato e metaforico (“Urlare la Y, inciderla nell’aria. Per sempre.”)  e prosegue oltre la singola vicenda, con l’emergere, sullo stesso terreno, di un’altra tragedia collettiva: quella del Covid, diffuso in Italia dieci anni dopo a pochi chilometri da dove fu uccisa Yara. Il fatto minore e quello maggiore, come li chiama, vengono idealmente legati. Giuseppe Genna con Yara trova la terza via per raccontare un delitto: non il puro True Crime, il genere esploso negli ultimi anni, né la sola finzione, bensì la mescola profonda tra i due. Senza rinunciare all’uno o all’altro, impastandoli tra loro: così lo sconcerto del fatto si unisce alla potenza della sua messa in narrativa.