La nona porta: perché rivedere il film di Roman Polański

Analisi di uno degli ultimi lodevoli horror neo-noir impregnati di occultismo
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“Alcuni libri sono pericolosi, non vanno aperti impunemente”. (Victor Fargas, bibliofilo, in una scena del film)

Stranamente, guardando alla figura a tratti enigmatica di Roman Polański, non verrebbe troppo istintivo associare il suo nome all’universo dell’horror, forse perché il regista franco-polacco si è spesso mostrato riluttante a etichettare troppo il suo cinema. Eppure, già a partire dagli anni Sessanta, particolarmente con un lavoro come Repulsione, prima ancora che con il più popolare Rosemary’s Baby, Polański era già quasi un maestro del terrore per quel suo modo ansiogeno di penetrare con la macchina da presa la psiche dello spettatore, forte di un’innata capacità nel saper trattare, con un ritmo particolarmente claustrofobico, due aspetti fondamentali che servono a rendere memorabile una pellicola del “brivido”: quello dell’inquietudine e quello della suspense.
Nel decennio seguente, dopo aver realizzato un capolavoro come Chinatown (1974), Polański firmò la sua pellicola più disturbante di sempre, Le Locataire (L’inquilino del Terzo Piano); dopodiché, le sue incursioni visive nell’ambito della tensione più raccapricciante sarebbero state sempre più sporadiche. Fu solo nel 1999, in occasione del suo quindicesimo film, La nona porta (The Ninth Gate), che Polański tornò a trattare nuovamente un tema come quello dell’occulto, stavolta traendo ispirazione, ma solo in parte, da un romanzo intitolato Il Club Dumas, dell’autore Arturo Pérez-Reverte. Nella Nona porta, indimenticabile, è protagonista Johnny Depp, il quale interpreta il “book detective” Dean Corso, ricercatore di libri rari che viene ingaggiato dall’imperscrutabile editore newyorchese Boris Balkan (Frank Langella, scelto da Polański per la sua recitazione nel remake di Lolita del 1997), al fine di indagare su un antico testo esoterico, Le Nove Porte del Regno delle Ombre, anche noto come il Nove Porte, di cui circolerebbero sul globo terrestre solamente tre copie. Balkan ne possiede una, acquistata da un magnate poi morto suicida, Andrew Telfer, e la affida a Corso cosicché possa confrontarla con le altre due, le quali copie si trovano una in Portogallo, a casa del bibliofilo Victor Fargas, l’altra in Spagna, da un’anziana ricca e disabile, la baronessa Kessler, essendo Balkan convinto che solo una delle tre sia realmente autentica. Il Nove Porte, un particolare tomo rilegato in pelle sulla cui copertina è intagliato un vistoso pentacolo – che nella realtà fu lo stesso Polański a ideare -, era stato redatto nel 1666 (guarda caso) per mano di un misterioso esoterista veneziano, Aristide Torchia, secondo leggenda con l’ausilio del Maligno “in persona” (per questa sua soprannaturale collaborazione, infatti, Torchia sarebbe poi finito al rogo durante l’Inquisizione). All’interno del libro sono incluse nove xilografie riprese a loro volta dalle pagine dell’Horrido Delomelanichon, volume misterico ritenuto opera di Lucifero, nonché un medium che se sfruttato in modo esperto, permetterebbe di arrivare a evocare il Portatore di Luce medesimo.

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Già leggendo Il Club Dumas, ancora prima di cominciare a stendere il suo film, Polański si era immaginato Johnny Depp come attore ideale per vestire i panni di Dean Corso. L’unico aspetto di Depp a non convincerlo era l’età, dal momento che il personaggio di Corso doveva essere un quarantenne, mentre il Depp dell’epoca aveva ancora trentaquattro anni. Era stato infine quest’ultimo a convincere Polański, dopo averlo incontrato durante l’edizione 1997 del Festival di Cannes, di essere lui il Corso perfetto. Look sobrio ma allo stesso tempo trasandato; tenace e non particolarmente simpatico, ma quanto basta goffo da suscitare ilarità, Depp è una sorta di Philip Marlowe ripensato per l’universo del fantastico. La sua interpretazione, convincente, non fu particolarmente ben vista dalla critica dell’epoca, ma poco importa. Munito di una borsa a tracolla, con cui si accompagna nelle sue scorribande e di cui si avverte il tintinnio durante tutti i suoi spostamenti, Corso si lancia nella sua indagine, ma come il David Hemmings di Profondo rosso, qualcuno o qualcosa cerca continuamente di ostacolarne i piani, mettendone a rischio l’incolumità. E poi c’è anche chi muore. Corso però non sa di poter contare sull’aiuto di una specie di angelo custode che lo segue dappertutto; una creatura dotata di poteri soprannaturali, all’apparenza un’umile, semplice ragazza dall’accento francese, interpretata da Emmanuelle Seigner, che fu per lungo tempo compagna di Polański. Della Seigner, il regista ripristina nella Nona porta la sensualità e ne mette in primo piano il magnetismo dello sguardo con cui già aveva abituato il suo pubblico in precedenti pellicole come Luna di fiele, e ancora prima per tramite dell’indimenticabile Frantic, in cui la vivace Emmanuelle supportava con grande capacità espressiva Harrison Ford. Diversamente dalla più accattivante e diabolica vedova Telfer, Liana (una stupenda Lena Olin, attrice svedese), l’erotismo da lei mostrato in La Nona porta è però contenuto, e anche il suo apparire, nonostante la sua figura sia centrale rispetto allo svolgimento della trama – secondo taluni il suo personaggio simboleggerebbe la figura di Babilonia la Grande – è deliziosamente incostante, fuggevole. Corso ne è affascinato e allo stesso tempo irritato, convinto che la ragazza sia semplicemente un’emissaria inviata da Balkan per controllare i suoi spostamenti. Le riprese del film si svolsero durante l’estate del 1998, in prevalenza tra Francia, Spagna e Portogallo, in un periodo in cui Depp ebbe anche occasione di conoscere la cantante e attrice Vanessa Paradis, con la quale avrebbe presto iniziato un’importante e duratura relazione. Darius Khondji, uno dei migliori direttori della fotografia al mondo, già dietro il thriller Seven, ebbe una notevole influenza sull’aspetto finale del film. Polański disse di averlo scelto per il modo in cui sapeva lavorare sulle luci, rendendole particolarmente sofisticate e realistiche nel dare alla fotografia un tono soprannaturale ma non artificiale. In ciò fu d’aiuto anche la bellezza intrinseca ai luoghi che fanno da sfondo alla pellicola: edifici come lo Chalet Biester, presso Sintra, Portogallo, o lo Château de Puivert, la suggestiva fortezza dove si svolgono le scene finali, situata nella località francese di Aude. Proprio partendo dall’uso così particolareggiato delle ambientazioni, si può infatti comprendere come La nona porta sia un capitolo del regista visivamente molto più affascinante che ripugnante, se messo a confronto per esempio col già citato Rosemary’s Baby. Diversamente da quel film, infatti, Polański elude l’idea di arrecare troppe angosce allo spettatore, e sebbene esplori con dedizione tutti i temi oscuri e mistici che compenetrano la sua opera, dall’altra appare evidente, nella Nona Porta, l’intento di non prendersi troppo sul serio nel fare ciò. E ancora come in Profondo Rosso, l’inquietudine è stemperata qui e lì da momenti di decisiva ironia, che nel caso di Polański vertono più su un certo umorismo d’annata tipicamente francese (in una bizzarra scena in cui Corso calpesta e rompe involontariamente i suoi occhiali, dopo una risibile colluttazione con un soggetto che tenta di sottrargli il libro di Balkan, si rasenta persino la comicità slapstick).

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Non è comunque un caso che si sia citato a più riprese Argento, dal momento che in qualche strano modo, sebbene non vi siano citazioni lampanti, la sensazione è che Polański, oltre a Profondo rosso, abbia tenuto a mente almeno altri due lavori come Inferno e Tenebre, operando su certe scelte visive e di sceneggiatura, in relazione a questo suo quindicesimo film, in particolar modo in quelle sequenze in cui il fuoco è posto come elemento precipuo. Altri misteriosi parallelismi, tralasciando Argento, si possono poi rintracciare in un lavoro come Eyes Wide Shut. A ben vedere, infatti, Depp rimanda in alcuni casi a Cruise per la particolarità di certe inquadrature e circostanze narrate, e la sensazione che in ciò vi sia del vero si afferma ancora di più nel momento in cui la vedova Felter si rende protagonista di un rituale (alquanto improbabile, nel suo caso: la scena in sé, per come si sviluppa, vuole palesemente essere un chiaro sfottò di Polański ai danni di un certo tipo di settarismo), visto che il tutto avviene all’interno di una sontuosa magione aristocratica (per la precisione si tratta dello Château de Ferrières, costruita tra il 1855 e il 1859 per il barone James de Rothschild) che fa pensare ancora al canto del cigno kubrickiano. Curioso, peraltro, il fatto che entrambi i film, Eyes Wide Shut e La nona porta, siano usciti nel 1999 (il primo passò al cinema qualche mese prima del secondo).
Un altro aspetto distintivo della Nona Porta è poi rintracciabile nella sua stupenda colonna sonora, composta da Wojciech Kilar, che in precedenza aveva collaborato con Polański in Death And The Maiden (La Morte e la fanciulla, 1994), con la partecipazione della soprano coreana Sumi Jo e della Filarmonica della Città di Praga. Steven Severin, ex bassista dell’epocale band goth rock/post-punk Siouxsie And The Banshees, parlando con la testata musicale britannica “Mojo”, si è premurato di inserirla in una sua personale classifica delle dieci migliori soundtrack horror di sempre (al nono posto e dopo Suspiria dei Goblin). Sebbene un po’ poco valorizzato all’epoca della sua realizzazione – chi scrive lo vide passare sullo schermo del Reposi di Torino a inizi 2000, quando fu distribuito in Italia -, The Ninth Gate è nel tempo divenuto una sorta di pellicola cult, tanto che, è notizia recentissima, ci sarebbe in lavorazione un remake che lo stesso Johnny Depp starebbe curando in veste di regista. (A Torino, fra l’altro, Depp è apparso lo scorso febbraio per delle riprese di un suo film – che non è il remake della Nona Porta – visitando a porte chiuse e in forma strettamente privata la mostra di Tim Burton ospitata dal Museo del Cinema.)
Se in ciò vi è del vero, è certo che un remake non potrà mai restituire la magia e il divertissement dell’originale, che in definitiva resta uno degli ultimi film horror (o mystery thriller che sia) a tematica satanica veramente appaganti nel suo invogliare, con fascino peculiare, alle ripetute visioni.