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Inferno

1980
Titolo Originale:
Inferno
REGIA:
Dario Argento
CAST:
Eleonora Giorgi (Sara)
Irene Miracle (Rose Elliot)
Leigh McCloskey (Mark Elliot)

Il nostro giudizio

Inferno è un film del 1980, diretto da Dario Argento

Quando Inferno uscì in Italia, nel marzo del 1980, furono – fummo – in pochissimi ad accorgerci che era un capolavoro. Anzi, più di un capolavoro: il film totale, l’alfa e l’omega del cinema di Dario Argento. Tutto ciò che era venuto prima di Inferno, i gialli zoologici, Profondo rosso, Suspiria, apparivano necessariamente come un progresso destinato a giungere a questo punto di arrivo. Tutto quello che ne sarebbe seguito, non poteva che essere un cammino in discesa, una lenta eclissi. Per anni abbiamo sperato che la terza fase, la Terza Madre, potesse completare la Grande Opera argentiana con una nuova apoteosi. Poi abbiamo capito che Inferno apriva e nello stesso tempo chiudeva il ciclo. Che era auto-concluso, auto-esplicativo, bastava a se stesso. Che era Inferno la Grande Opera alchemica che Argento aveva iniziato e portato a termine nello spazio di quegli ottanta minuti scarsi di film. Lo capimmo subito, fin dal prologo, quando Rose Elliot (Irene Miracle) traduce le minacciose righe latine delle Tre Madri – enfatizzate dalle inquadrature in dettaglio del testo, alternate agli occhi avidi della lettrice e accompagnate dalla musica dolce di Keith Emerson – che questo viaggio argentiano ci avrebbe condotto da qualche parte nuova nel suo universo, in una zona realmente infera e sotterranea in cui nulla sarebbe stato preventivabile.

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E in effetti, Inferno è pieno di mosse a sorpresa, di trucchi, stratagemmi, tranelli, tricks, che Argento tende al proprio pubblico riportandone sempre a casa un trofeo. Il più bel gioco di prestigio del film è l’eliminazione di Eleonora Giorgi e di Gabriele Lavia nel palazzo romano dove l’ospite inatteso introdotto da frammenti di immagini quasi subliminali – una farfalla divorata, una donna che si impicca, le teste di alcune bamboline di carta tranciate da una forbice – è esattamente quello che il suo lavoro, le sue operazioni di quel momento, ci stanno dicendo che è: la Morte. La Morte che nelle sue infinite figurazioni e metamorfosi qui ha assunto la forma dell’assassino di un “giallo”. Argento faceva a gara con se stesso nel superare quanto aveva raggiunto con la prima doppia morte di Suspiria. E riusciva persino a vincersi, tramite quel coltello che, estratto dalla gola di Gabriele Lavia rantolante, con altrettanto selvaggia furia finiva piantato tra le scapole di Eleonora Giorgi. Sulle note del Va pensiero di Giuseppe Verdi. Tutti gli omicidi di Inferno sono basati sull’imprevedibile e sono caratterizzati da una meccanica ricercata, stravagante e nel caso di Kazanian, l’antiquario aggredito dai topi in Central Park e quindi terminato dal proprietario di un chiosco di hot dog con un colpo di lama sul collo, addirittura surreale. Argento mirava a ricreare un’atmosfera realmente dantesca nel suo inferno cinematografico e convocò le bestie e gli elementi naturali per cooperare alla realizzazione di questo quadro. In sceneggiatura la sua visionarietà si era spinta da questo punto di vista molto più in là, immaginando che nella sequenza in cui Sacha Pitoeff incontra la sua fine tra i ratti e le deiezioni fognarie newyorkesi, comparisse una barca ispirata a quella del celebre dipinto di Arnold Böcklin L’isola dei morti, con a bordo un Caronte; ma si rinunciò all’idea per ragioni non ben chiare.

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Certamente, altri passaggi ben più congruenti con la feroce fantasia dell’autore della Divina Commedia che con le prose liriche di De Quincey, Argento li inserisce nel suo film quando cala Irene Miracle nella camera sommersa pullulante di cadaveri – le letture psicanalitiche sarebbero fin troppo ovvie – o quando guida la poetessa in quell’universo colorato e labirintico che sono le membra e i sistemi vitali della casa-Madre, nella cui logistica l’inferno dantesco si specchia negli incubi di Lovecraft che a sua volta si specchia nelle policrome allucinazioni di Mario Bava. La frase finale che Argento avrebbe potuto mettere come epigrafe su Inferno, l’aveva scritta una volta Lovecraft: “… E con il passare di strane ere, anche la Morte muore”. Il Solitario di Providence la riferiva ai Grandi Antichi. Ma sarebbe stata adatta al gesto finale che Veronica Lazar compie facendo crollare, nel fuoco, il palazzo di New York che è stato la sua casa e il suo corpo. Era ovvio che dopo una chiusura del genere, non avrebbe avuto nessun senso realizzare un altro film. Difatti Argento non lo fece. La Terza Madre è stato solo un brutto sogno che abbiamo dimenticato subito dopo averlo sognato.