Intervista a Paul Schrader

IO E IL MIO CINEMA. Paul Schrader parla
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Paul Schrader da Cannes a Torino; dal concorso internazionale in cui ha presentato l’ultimo film Oh Canada accanto ai suoi attori Richard Gere e Uma Thurman, al Museo Nazionale del Cinema, dove ha ricevuto il premio Stella della Mole e incontrato il pubblico torinese per una masterclass e per la proiezione del suo film First Reformed. Lo sceneggiatore (bastino due titoli: Taxi Driver e Toro Scatenato) e regista statunitense ha parlato con noi della sua carriera, di cinema e di altre cose…

Essendo a Torino, la prima curiosità da svelare riguarda il ruolo di Richard Gere in American Gigolo, da lei scritto e diretto: perché quando il personaggio si presenta dice di essere nato a Torino?

«(Ride, NdR) Onestamente non so di dove originario fosse quel personaggio, ma di certo non era davvero nato a Torino: quell’uomo è uno gigolo, un gran bugiardo, avrebbe detto qualsiasi cosa ritenesse utile per piacere a una donna! Non ricordo, davvero, perché io abbia scelto Torino quando ho scritto la sceneggiatura…».

A proposito di American Gigolo recentemente ne è stata fatta anche una serie tv, andata in onda su Showtime nel settembre 2022. È ambientata 15 anni dopo l’arresto del protagonista, che cerca di scoprire chi l’abbia incastrato…

 «Qualche anno fa mi hanno chiesto cosa ne pensavo, per me era una pessima idea: quel film esisteva in un preciso tempo e quel preciso tempo era passato. Un anno dopo sono tornati e mi hanno detto: abbiamo i diritti e lo faremo lo stesso, quindi o lo facciamo senza di te o ci dai il permesso di usare il tuo nome e ti diamo 50.000 dollari. Ho preso i soldi, ma non ho mai visto la serie».

Partendo dall’inizio della sua carriera, lei ha iniziato come critico e ha anche firmato un libro fondamentale come Il trascendente nel cinema: Ozu, Bresson, Dreyer nel 1972.

«Quel libro ha avuto una riedizione qualche anno fa, per cui ho dovuto ripensare allo stile trascendentale: mi ci è voluto quasi un anno per la nuova introduzione! Ho amato molto i film di Bresson, in particolare Diario di un ladro (Pickpocket), di cui ho ripreso la scena delle due mani che si toccano attraverso le grate della prigione, sostanzialmente copiandola più volte in American Gigolo, Lo Spacciatore (Light sleeper) e Il collezionista di carte (The card counter): ho spesso preso ispirazione e omaggi da altri film, anche da Godard. Prima dell’arrivo di VHS e DVD era più difficile vedere i film, soprattutto prendendo da quelli europei sapevi che non saresti stato beccato! Ricordo molto bene la prima volta che ho visto Pickpocket: marzo 1969, a Los Angeles, in quei 75 minuti sono successe due cose che mi hanno portato alla mia carriera successiva: quel film univa l’ambiente sacro e religioso in cui ero cresciuto a quello profano in cui mi ritrovavo a vivere, lo stile di questo film li collegava e quindi ho deciso di fare un libro sul trascendente nel cinema. Non avevo mai considerato prima di diventare sceneggiatore o regista, io ero un critico. Ma vedendo il film di Bresson per la prima volta ho pensato che avrei potuto scrivere un film, e due anni dopo ho realizzato Taxi Driver! Ma ora sono diventato un regista e non posso più tornare indietro: l’altro giorno qui a Cannes ho visto un film con Adam Driver e non mi è piaciuta molto la sua interpretazione, ma non potrei dirlo perché se domani lo volessi in un mio progetto potrebbe essere un problema…».

I suoi primi passi nel mondo del cinema sono stati come sceneggiatore, in particolare per Martin Scorsese per cui ha scritto capolavori come Taxi Driver e Toro Scatenato, ma anche L’ultima tentazione di Cristo e Al di là della vita. Com’era il vostro rapporto di lavoro?

«Avevamo due modi diversi di pensare, decisamente. Lui è un grande regista, ricordo la prima volta che ho visto Taxi Driver mi sono detto: meno male che non l’ho diretto io, non sarei mai stato così bravo! Io e Martin siamo diversi e uguali, siamo entrambi bassi e asmatici ma lui ha radici italiane, cattoliche e urbane mentre io le ho olandesi, protestanti e campagnole. Ma abbiamo anche tanti punti in comune, siamo trainati da questi contrasti… Abbiamo fatto quattro film insieme e uno mai realizzato, sulla vita di George Gershwin, ma non saremmo riusciti a continuare a collaborare, ci era chiaro: da quando ho iniziato a dirigere anche io le cose sono piano piano cambiate, a quel punto saremmo stati due registi in una stanza e Martin ne voleva solo uno, lui. Sentivamo la tensione nel nostro ultimo film insieme, ci era impossibile continuare, si stava affacciando tra noi la competizione. Peccato, anche perché mi sarebbe piaciuto mi chiamasse per fare insieme Silence, ma non è accaduto».

Ha scritto tanti film, ma una delle caratteristiche principali dei suoi lavori è la presenza di personaggi solitari. Come mai questa scelta?

«A quei tempi vivevo in macchina e allora ho pensato alla metafora di un ragazzo che viveva in una prigione gialla, un taxi a New York, come la metafora di quella solitudine maschile che vivevo anche io. Sono poi tornato 4-5 volte verso quello stesso tipo di personaggio, recentemente l’ho fatto per tre volte di fila, infatti in Oh Canada ho voluto allontanarmi da tutto ciò. Grazie a quei personaggi, però, sono entrato nel mondo del cinema, e so che saranno su questo le tre righe del mio elogio funebre…».

Lei, Scorsese, Coppola e altri grandi del cinema siete stati i protagonisti della New Hollywood. Eravate consapevoli che stavate facendo la rivoluzione? 

«La risposta breve sarebbe: sì. Ma la rivoluzione è sempre presente, ora la nuova sfida è quella delle intelligenze artificiali. Noi venivamo dalle scuole di cinema, e vivevamo in un periodo di rivoluzione in generale, per i diritti, contro la guerra e l’establishment, tutto stava cambiando ed è stato più facile pensare di potercela fare. Inoltre prima non c’era molta libertà, gli studios comandavano: poi qualche flop economico a fine anni ’60 ha cambiato le cose, è arrivato il grande successo di Easy Rider e hanno iniziato ad ascoltare di più noi giovani. C’è stata un’apertura di qualche anno da cui abbiamo tratto vantaggio».

Sono passati più di dieci anni da The Canyons, che nel 2013 ha segnato una sorta di ripartenza per la sua carriera. Cosa ricorda di quel lavoro?

«The Canyons è stato un progetto unico, il mio primo e unico “DIY (do it yourself) movie”, che ho fatto insieme al mio amico Bret Easton Ellis. Abbiamo preso nel cast chi volevamo, Lindsay (Lohan) e anche una pornostar (James Deen): ai tempi il film è stato demonizzato dai media, ma il tempo è stato generoso e ora viene rivalutato. L’ho fatto così perché andava fatto, è stata una risposta alla domanda “si può fare cinema post-pellicola?”, ecco: sì, si può fare. Quel film ha cambiato il modo in cui faccio cinema, ma non lo rifarei di certo ancora! Il digitale è molto meno costoso, quando ho iniziato un film si faceva in 45 giorni, oggi in 20-22, è tutto più veloce, servono meno cose: oggi chiunque può fare un film anche solo con lo smartphone, montarlo e distribuirlo con il proprio laptop. Il problema è riuscire a farlo e sopravvivere di questo, è più difficile emergere. La tecnologia, inoltre, ha cambiato tantissimo soprattutto le abitudini del pubblico: un tempo la gente vedeva i film al cinema e poi ne parlava, ovunque. Ora non è più così, il cinema è diventato più marginale nella vita delle persone: oggi il calcio è ciò che il cinema era un tempo».

A Cannes nel suo Oh Canada affronta anche il tema della messa in scena della morte.

«Il limite lo scegli tu, dipende da che tipo di pubblico vuoi coinvolgere. Frederick Wiseman ha fatto Near Death, un film di molte ore in cui si vedeva solo gente che moriva, e non molte persone lo hanno visto perché era troppo duro. Se vuoi fare un film sulla morte devi trovare il modo giusto, ma è lo stesso se il tema fosse la demenza, se avessi un personaggio che non capisce cosa dice. Cosa è giusto riprendere? Sei tu che poni il confine».

Cambiando argomento: come lavora sulle musiche dei suoi film, che ha affidato a tanti nomi diversi spesso nuovi al mondo delle colonne sonore?

«Mi piacciono molto i compositori giovani nuovi, a me piace vedere all’opera chi ancora non ha fatto colonne sonore per vedere quali nuove soluzioni può trovare rispetto ai professionisti più “abituati” al lavoro: quale sarà il loro approccio? Il lavoro così è più divertente. Poi ci sono casi diversi, come il lavoro fatto con Philip Glass per Mishima: inizialmente pensavo a un compositore giapponese, come Sakamoto ad esempio. A Philip ho detto di aver creato tante piccole barche e che lui doveva creare il fiume. Lui ha scritto 40 minuti di musica ma non andavano bene, allora li ho presi, tagliati, spostati e montati: andavano molto meglio, glieli ho fatti sentire e a quel punto ha saputo scrivere qualcosa di perfetto, unendo le sue idee alle mie modifiche».

Da tempo si parla di un suo progetto su Frank Sinatra con Kevin Spacey, che l’anno scorso ha ricevuto la Stella della Mole qui a Torino come lei: lo vedremo mai?

 «Non credo che si farà mai nessuno dei due film, di sicuro non il mio! Ma ho seri dubbi anche su quello di Martin, che ci prova da venti, trent’anni ma finora Tina Sinatra, che ha i diritti su tutte le canzoni del padre, non ha mai voluto cedere. Io sì, ne avevo parlato con Kevin ma poi lui ha avuto i suoi problemi e tutto è stato cancellato. Ora so che DiCaprio e Scorsese ci stanno riprovando, vedremo. Alla fine, se Tina non vuole non si fa, senza le canzoni di Sinatra non hai il film».

Lei usa spesso i social network per commentare i film che vede, spesso spiazzando il suo pubblico con giudizi molto sinceri: le è piaciuto Barbie, ad esempio.

 «Vero! A me è piaciuto, soprattutto la fine: ora sento dire che vogliono farne un seguito, ma io non lo farei. La grande idea è stata quella di portare Barbie fuori dal suo mondo e metterla nel mondo reale, ci sono riusciti quindi bene così».

Per omaggiarla qui a Torino è stato scelto di proiettare First Reformed, che le è valsa la unica – finora – candidatura all’Oscar come migliore sceneggiatore.

«Sono stato cresciuto in un ambiente religioso, a scuola e in famiglia, e mai avrei pensato di fare un film sulla spiritualità! Volevo tenermene lontano per evitare problemi, è un argomento complesso e rischioso, non volevo restarne imbrigliato. Ma la tecnologia nel corso del tempo è cambiata notevolmente, l’avvento del digitale ha permesso di dimezzare tempi di produzione e costi e di rendere filmabili idee che prima non lo erano. In questo film ho realizzato, in un certo modo, l’unione di due lavori che ho molto amato ai tempi dell’università, Diario di un curato di campagna di Robert Bresson e Luci d’inverno di Ingmar Bergman: almeno nella mia mente, è il punto di incontro tra i due. Grazie al costo non eccessivo ho poi ottenuto il sogno di ogni regista, il final cut, senza il quale sarebbe stato difficile per me farne accettare il finale. Sinceramente, però, non so se oggi rifarei un film del genere…».

In conclusione: su cosa sta lavorando in questo periodo?

«Ho realizzato quattro script, due sull’empowerment femminile, uno su tre fratelli neri che cercano di uccidersi, e uno – che è quello che farò – è su due “quasi” fratelli che si innamorano della stessa ragazza, una storia sulle cose stupide che si fanno in amore. Per una volta sarà più sulla trama che sui personaggi, di solito non scrivo cose così: il titolo provvisorio è Non compos mentis, che in latino significa “fuori di testa”».