Fermate il mostro: voglio scendere!

Cinema e fiction sul più feroce killer seriale
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Perché la letteratura prodotta in Italia sul Mostro di Firenze (Giuttari, Mattei, Filastò, Perugini, Lucarelli-Giuttari, Spezi, Cugia, che ha scritto un tesoretto dal titolo Un amore all’inferno) è infinitamente superiore al cinema ispirato al Mostro di Firenze (Ferrario, Teti, Siragusa-Frajoli e più di recente Grimaldi con la sua fiction in sei puntate per Sky, mentre attendiamo che Tom Cruise batta finalmente il ciak del suo film sul Mostro, da anni in predicato di venir fatto)? La diagnosi, facile, è che i libri stan dietro a una verità fattuale e giudiziaria che, di evento in evento, di rivelazione in rivelazione, si è andata strutturando in un complesso immaginifico, assurdo, pittoresco, un Arcimboldo odorante di sangue e sperma nelle cui fattezze han trovato posto feticismo e pedofilia, maghi, indovini e riti neri, segreti mummificatorii egiziani e sette orgiastiche, romanzi a chiave e il povero Alberto Bevilacqua – che molti ignorano essere passato sotto le Forche Caudine del sospetto di essere lui, incredibile a dirsi, il mostro; quel che si chiama la realtà romanzesca e parecchio di più. Mentre il cinema sembra avere obbedito, al contrario, a dei criteri di normalizzazione del possibile, prospettando scenari di basso profilo fantastico, per timore di azzardare, per rispetto dei lutti, per varie cose, anche per limiti di chi li ha scritti e diretti. Quel che si chiama una fantasia molto dimessa. A parziale discolpa dei cinematografari, va aggiunto che i tre film storici sul Mostro, Il Mostro di Firenze di Cesare Ferrario, L’assassino è ancora tra noi, di Camillo Teti e Tramonti fiorentini (28° minuto), di Gianni Siragusa, sono stati girati tutti e tre durante l’interregno tra l’ultimo duplice delitto (quello dei turisti francesi Naudine Mauriot e Jean Michel Kravechvili, la notte di domenica 8 settembre 1985) e il levarsi sull’orizzonte delle indagini del fosco astro di Pietro Pacciani, quindi dei suoi compagni di merende e di assassinio, quindi delle menti occulte, di seconda linea, che governavano le mani grosse, contadinesche, ma fini, da perfetto perito settore, quando era d’uopo incidere ed estirpare, del “Vampa” di San Casciano.

I film erano il prima, il pre-Pacciani. La fiction di Grimaldi è stata il dopo, l’adesso. Quindici anni dopo che il Mostro è passato nel regno dei più, avvelenato con un antiasmatico che per il suo cuore – anche i mostri ce l’hanno – era micidiale. E dopo che molte cose sono venute a galla, insieme ai cadaveri. Più che a una fiction, guardando Il Mostro di Firenze di Sky, sembrava di stare di fronte a un documentario: nel dubbio se operare quello che gli americani chiamano re-imagining dei dati della cronaca e degli atti processuali  o perseguire una direzione incondizionatamente mimetica, Grimaldi e chi per esso hanno scelto la seconda via del bivio. A tal punto da rispolverare la vecchia opzione degli attori fisiognomicamente simili ai personaggi reali che interpretano: ecco quindi Massimo Sarchielli copiaincollato – in maniera impressionante – da Pacciani, Giorgio Colangeli/Michele Giuttari, Marco Giallini/Renzo Perugini, Bebo Storti/Pietro Vigna, Corso Salani/Paolo Canessa. Devono poi, però, avere pensato che assumere “il punto di vista di Dio” avrebbe reso il tutto troppo neutro, così si sono messi a cercare e hanno trovato nella figura di Renzo Rontini, padre di una delle vittime del Mostro, vissuto e morto correndo dietro a verità e giustizia fino a farsi scoppiare il cuore, il giusto centro di gravità patetico (nel senso, positivo, di pathos) del racconto. Rontini è Ennio Fantastichini – ottima scelta artistica – l’unico a non dover soggiacere all’ingranaggio del camaleonte, se non per la parlata toscana. Scritto da Daniele Cesarano, Barbara Petronio e Leonardo Valenti, che vantavano il trofeo di Romanzo criminale, Il Mostro di Firenze si vede bene ma non incide: non riesce a entrare sottopelle, usa aghi smussati, e non si sta alludendo alla rappresentazione, che si pronosticava comunque meno ardita, dei delitti. Si tiene dall’inizio alla fine, questo sì, ma non trattiene: il senso del tremendo, il matto putridume che zampilla sotto dolci declivi, all’ombra di tramonti fiorentini, dentro certi uomini e certe donne che se il Diavolo esistesse sarebbero totalmente del Diavolo, sono convitati di pietra. Il cinema continua a stare intorno al pozzo, ma non scende nel pozzo.

Tra i vecchi film sul Mostro, 28° minuto è l’unico vedendo il quale e indagando sul quale non si ha la sensazione di buttare via il tempo. Fu anche l’unico dei tre che non dipendesse dal libro e dalle teorie di Mario Spezi, Dolci colline di sangue – del quale Tom Cruise ha, appunto, comperato i diritti di sfruttamento cinematografico per un realizzando kolossal hollywoodiano. Iniziato nel 1986, bloccatosi, rimasto in stallo per diverso tempo, mai apparso al cinema e finalmente, nel 1991, distribuito in tv e in videocassetta 28° minuto ha avuto un iter a dir poco complesso, che il regista Gianni Siragusa (de facto se non de iure, visto che la regia è firmata Paolo Frajoli) così ricostruisce: «Avevo scritto il soggetto e la sceneggiatura e l’ho diretto tutto io, dalla prima all’ultima inquadratura. Solo che a un certo punto la produzione, la F.D.S., una società nuova che si era costituita proprio per questo film – c’era di mezzo un certo Baratella, figlio di un grossissimo ragioniere del cinema e un certo Fiori, che era anche lui nel campo del cinema ma si occupava di sindacati – ha terminato i soldi… cose che capitano spesso. Una seconda società, dell’avvocato Panfili, è subentrata, ha rilevato tutto, comperando il girato, e ha portato a termine il film, sempre con la mia regia, ma ottenendo un articolo 28. C’era però un problema: con l’articolo 28 lo Stato finanziava le opere prime, mentre io avevo già diretto diversi film. Così l’abbiamo fatto firmare a uno che prima non aveva mai girato niente, facendolo figurare una prima regia: questo Paolo Frajoli, che esiste, non è affatto misterioso, è un imprenditore che lavorava anche lui nel cinema – tra l’altro era anche un amico, ci si poteva fidare – ma non era un regista… Passato come articolo 28, gli hanno dato i soldi e abbiamo finito di girare, in un paio di settimane. Il film uscì direttamente in tv perché se fosse andato nelle sale, in poche copie, i soldi se li sarebbe ripresi lo Stato. Ha venduto abbastanza bene, tra tv, cassette… l’hanno distribuito anche in edicola. 28° minuto fu un titolo messo alla fine, perché in origine si chiamava Tramonti fiorentini, era stato depositato così».

Anche la protagonista si ricorda che sul set di Horror Assassination – titolo con cui lo girarono – c’era soltanto Siragusa a dirigere: Antonella Sperati, figlia dello scenografo Remo Sperati – e cugina della Sara Sperati che ogni amante del bis non può non conoscere – nasceva ballerina ma a un certo punto entrò nel cinema rimanendoci un bel po’e inanellando una filmografia da Misteri d’Italia da manuale. Di sé, la bella Antonella oggi dice scherzosamente di essere stata “la regina degli articoli 28” – cogliendo fior da fiore: La bramosa, L’uomo in pericolo, Escurial, Lombroso, Il mistero di Aquila Nera; ma passò però anche per Fulci (Murderock) e per Brass (Paprika). Lei è la cosa di gran lunga più entusiasmante di 28° minuto, nuda o vestita, danzante o dormiente, una meraviglia naturale che innesca comprensibilmente la paranoia del Mostro, il quale quando entra in fase omicidiaria comincia ad accusare una vistosa zoppia…