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The Infernal Machine

2022
REGIA:
Andrew Hunt
CAST:
Guy Pearce (Bruce Cogburn)
Alice Eve (Laura Higgins)
Alex Pettyfer (Dwight Tufford)

Il nostro giudizio

The Infernal Machine è un film del 2022, diretto da Andrew Hunt.

Ma come?! L’ennesimo remake dell’ennesimo film tratto dall’ennesimo racconto del buon Stephen King? Beh, dati i tempacci che corrono, tra i vari Carrie, Pet Sematary e più di recente il loffissimo Firestarter, diciamo pure che una reazione del genere appare ben più che lecita. Ma tranquilli amici cari perché, eccezion fatta che per un ingannevole corto circuito innescato da una vaga e subliminale assonanza con il ben noto italico titolo, almeno per stavolta pare che il Maestro del Brivido e la sua Christine l’abbiano decisamente scampata bella. C’è tuttavia qualcosa di profondamente kinghiano che aleggia sulle quasi due ore di questo The Infernal Machine, a cominciare dal personaggio di un ruvido e misantropo scrittore che, così come i cugini di penna protagonisti de La metà oscura e Secret Window, si troverà a dover ingaggiare una battaglia, psicologica ancor prima che fisica, con un misterioso stalker chesembra covare nei suoi confronti miscuglio di rancore e ammirazione da far invidia a qual si voglia diagnosi di schizofrenia. Ed è appunto un film profondamente schizofrenico quella apparecchiatoci – con discreto mestiere a dire il vero – da Andrew Hunt, deciso a rischiare il tutto per tutto con un’opera seconda indubbiamente intrigante ma a tratti, forse, eccessivamente cerebrale, appesantita dalla foga di voler infarcire la mente e gli occhi dello spettatore con indizi e false piste al punto da rischiare più volte di perdere d’occhio la strada maestra. Protagonista quasi assoluto di questo incubotico e tesissimo viaggio dall’incedere dichiaratamente hitchcockiano troviamo, neanche a farlo apposta, uno scorbutico Guy Pierce, imbolsito faccione da pesce lesso e barba ispida intenzionato a farsi perdonare, per quanto possibile, i recenti ignobili scivoloni de Il settimo giorno e Zona 414, vestendo qui i sozzi e logori panni di Bruce Cogburn, sorta di decadente incrocio fra un Hemingway in avanzato stato di alcolica trasandatezza e un Salinger al suo massimo grado di rugginosa asocialità.

È lui infatti che, dopo aver raggiunto nei ruggenti anni ’80 fama e gloria grazie alla sua unica contestata fatica letteraria che dà il titolo al film stesso, da oltre venticinque anni ha scelto di ritirarsi in esilio nella sua personalissima Desperation nel mezzo delle riarse sabbie al confine messicano, cercando di dimenticare quella fatidica e cruenta strage che il suo romanzo maledetto ispirò in una povera mente malata così come fu Il giovane Holden per il tristemente noto Mark David Chapman. Ma ecco che, da un giorno all’altro, la sbronza e sonnacchiosa vitaccia quotidiana inizierà ad essere sconvolta da misteriose telefonate e altrettanto criptiche lettere provenienti da un non meglio identificato e decisamente molesto ammiratore segreto che, ossessionato dallo scrittore, cercherà in modo ossessivo e compulsivo, di farlo divenire parte di una nuova intricata narrazione, la quale pare affondare le radici nella passata e ben nota scia di morte e distruzione. D’altronde, così come ama pontificare la bella e simpatica Agente Higgins (Alice Eve) che darà sostegno al nostro perseguitato scribacchino: «ogni pazzo ha bisogno di un buon motivo per esserlo». Chi sono io? La prima fondamentale domanda che ogni scrittore dovrebbe mettere in bocca al suo personaggio ancor prima di battere la prima lettera. Questo ciò che insegnava ai suoi allievi il buon Cogburn prima di cedere al fascino della bottiglia e ciò che appunto lo stesso Guy Pierce sembra chiedersi stranito per l’intera durata di The Infernal Machine, mentre loschi e stranissimi accadimenti iniziano a incrinare tanto la sua disastrata vita quanto la sua altrettanto compromessa sanità mentale.

Partendo da un pretesto decisamente stuzzicante che di certo non farebbe il dispiacere del sopracitato zio King, l’opera di Hunt inizia progressivamente a carburare grazie a una sapiente dose di intrigo e mistero che, tuttavia, sembra iniziare a ingolfare e a sovraccaricare l’intera (infernale) macchina già allo scoccare della prima oretta, gettando parecchia succosa carne al fuoco ma dimenticandosi alcuni dei pezzetti più polposi a sgocciolare solitari sulla brace. Così come già accadeva infatti con il labirintico e altrettanto intrigante Under the Silver Lake dell’ormai (cinematograficamente) compianto David Robert Mitchell, anche qui il racconto sembra soggetto ad una sorta di “effetto valanga”, lievitando progressivamente e inspessendo via via la matrice principale con tutta una serie di innesti tematici – tra cui spicca persino all’oscuro mito delle number stations – che hanno come unico risultato non tanto quello di incrementare ulteriormente l’hype dello spettatore quanto, piuttosto, di stordirlo con i conturbanti fumi di una regia e di una sceneggiatura che tentano di rendere ancor più sbiadita la semplice realtà delle cose. «Chi non sa usare le parole, dalle parole finirà per essere usato» recita il misterioso stalker alla sua idolatrata preda, ammonendo forse indirettamente anche il suo stesso registico creatore che, così come quel bambino desideroso a tal punto di giocare a nascondino da finire dimenticato dai suoi stessi compagni, sembra qui lui stesso lasciato tutto solo soletto a baloccarsi col suo aggrovigliato e certamente affascinante giocattolo, riuscendo per fortuna a riprendersi in tempo utile a dare degna enfasi a un onestissimo e a suo modo inaspettato epilogo.