New York solitudine e rabbia

L’esotico metropolitano mortuario: Blue nude, Il pornoshop della settima strada, Lo squartatore di New York
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Ci sono periodi cinematografici che si amano più o meno intensamente. Di questi, la maggior parte delle volte, quelli che testimoniano il passaggio della fine di un’epoca portano in sé un fascino malsano, irrequieto, irresistibile. Tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, il cinema di genere italiano vive uno dei periodi più bui ed epilettici, quello della patologia: è un cinema disperato, pessimista, ma deciso ad approfittare di ogni singolo atomo di ossigeno per ancorarsi al proprio ontologico istinto di sopravvivenza. Divorato nelle pieghe più profonde da una crisi che sta producendo metastasi, è sorretto da un cocktail chemioterapico di esotismo, violenza e pornografia, attraverso cui descrive itinerari che trovano nell’eccesso la chiave di volta per tenere alta la soglia ricettiva dello spettatore e, nel contempo, annienta in atmosfere crepuscolari ed irreversibili ciò che rimane delle velleità artigianali/industriali del proprio essere “cinema”. Ad esemplificazione mirabile e, in quanto tale, forzosamente paradigmatica ed essenziale, è curioso e stimolante porre l’attenzione su tre opere apparentemente diverse e chiaramente, oggettivamente indipendenti l’una dall’altra dal punto di vista dell’ideazione cinematografica, ma sorprendentemente agganciate come vagoni di un convoglio se crediamo possibile un apparentamento teorico tra contenuti e forme, scaturiti da un medesimo contesto storico, sociale, cinematografico/industriale. Blue Nude (1976) di Luigi Scattini, Il pornoshop della settima strada (1979) di Joe D’Amato e Lo squartatore di New York (1982) di Lucio Fulci rappresentano un trittico di opere che è possibile trasfigurare idealmente dentro un percorso unitario di cinema corporale, “fisico”, ovvero cinema in cui le caratteristiche organolettiche della visione prendono il sopravvento sul resto e, fisicamente dunque, cinema che conduce al degrado, alla rassegnazione, alla stanchezza di una sopravvivenza malsana. In Blue Nude il protagonista Rocco Spinone è un giovane emigrato in cerca di notorietà a New York, che troverà l’unico momento di “gloria” durante le riprese di loops pornografici o quando, minato irreversibilmente dalla morte in uno snuff movie della sua amica/amante Lilly, ucciderà a colpi di pistola un poliziotto irlandese che lo ricatta. In Il pornoshop Joe D’Amato utilizza l’espediente di una hostage holding story per narrare semplicemente un percorso, inutile e disperato oltre che morboso, attraverso luoghi simbolici e quasi irreali. In Lo squartatore quegli stessi luoghi diventano teatro di sesso e di morte, ancora una volta, con Fulci che torna a utilizzare la sovrastruttura del giallo per descrivere le morti di personaggi anonimi e degenerati, figli di un clima e una stagione ben precisi.

La ricerca da parte di certo cinema italiano di un esotico metropolitano mortuario è più o meno inconsapevolmente la concretizzazione di un malessere generazionale, da basso impero: il trittico di pellicole newyorkesi a cavallo tra Settanta e Ottanta delinea il percorso di individui solitari, sfiduciati, modellati dalla metropoli con il dna mutato, con un potenziale inespresso che finisce per implodere devastando tutto dall’interno. Rocco Spinone è un aspirante attore che si muove nei bassifondi di una città affollata e crudele alla ricerca di luce, intesa come affermazione e rapporti umani. La sua è una New York ad altezza d’uomo, vista come in vetrina dall’interno di abitacoli d’automobile; un verminaio dove è impossibile reagire e che Scattini restituisce nei suoi aspetti più disumani, tra sporcizia, degrado, lerce camere d’albergo e appartamenti in cui si prostituiscono ragazzine o si girano anonimi loops pornografici. Il fulcro centrale della pellicola è l’arrivo obbligato, l’incanalarsi inevitabile dell’esistenza verso una trasformazione obbligata, un viaggio senza ritorno verso l’oscurità. Nel finale Rocco viene battezzato all’omicidio in una bellissima sequenza scorsesiana (“Ipotesi per una scena finale del film” sussurra poco prima la voce off del protagonista, concludendo idealmente la sceneggiatura parallela del “suo” film) perché l’innocenza è ormai perduta e sopravvivere è più importante di vivere. Eppure ci aveva provato a vivere, a mettere in gioco ingenuamente i propri sentimenti e le proprie fragilità, a districarsi in un labirinto esplorato dal regista e dall’operatore Benito Frattari con la macchina a mano, sui marciapiedi, nei locali di strip, alla ricerca di un po’ di calore umano. Su quegli stessi marciapiedi, con naturale consequenzialità, si apre il film di Joe D’Amato, con i protagonisti che non a caso camminano sui titoli di testa tra le vie di una città apparentemente solare e turistica, per esser poi subito risucchiati (o farsi volontariamente risucchiare) al chiuso di empori da rapinare gestiti dalla malavita o soffocanti pornoshop in cui capire come e dove salvarsi il culo. Rico e Bob sono la naturale evoluzione del personaggio interpretato da Gerardo Placido nel film di Scattini: due perdenti, bruciati, che troviamo in medias res a far quello per cui sono destinati, delinquere e scappare per sopravvivere. E se il sesso nella sua accezione più industriale, la pornografia, nel primo film rappresentava il più naturale dei rapporti umani, adesso diventa merce di scambio (la fellatio di Lorna a Bob in cambio della libertà) o ingegnoso stratagemma per godere e prendere per i fondelli il bestiario maschile, sbruffone e buggerato (tutto il sesso offerto dagli ostaggi femminili, fintamente sofferto e realmente goduto).

E difatti la rapina e la fuga non portano a niente, i rapinatori continuano a scappare fuori campo privati del bottino («Non sai quanto ti devo io…negraccio…», esclama un’insospettabile Faye dopo aver sottratto il denaro a Sammy) e lo shock del sequestro sembra non aver lasciato strascichi su nessuno degli ostaggi, come se l’aver subito umiliazioni e soprusi sia stato solamente un diversivo originale ma tuttavia quasi normale (i ragazzi, per niente turbati, decidono di continuare le proprie vacanze a spese dei delinquenti; Lorna, più seccata che sconvolta, telefona svogliatamente per poter essere riportata in città). E i fuggitivi? Che fine fanno? L’urgenza centripeta della dissoluzione li riporterà probabilmente nella Grande Mela dove l’ultimo stadio di degradazione li renderà socialmente (e mentalmente) assimilabili allo squartatore seriale, un personaggio malato, il grado zero della degenerazione psichica e antropologica, un soggetto a cui non interessa più neppure l’aberrazione sessuale, vissuta per procura, ossessionato com’è dal desiderio di uccidere giovani donne per espiare le sofferenze di una figlioletta malata (la figlia di Rico concepita con Lorna durante il lussurioso sequestro? La sua proiezione?) che giovane donna non lo diventerà mai. «In questa città, se tu non riesci a emergere in una cosa qualsiasi, anche se sei la più brava, la più bella, anche se sei perfetta, intelligente, sei esclusa… non ti lasciano vivere…» lo afferma Peter Bunch ma un concetto simile lo esprimeva già Rocco Spinone, a un livello più basico, elementare, nel film di Scattini: «Qui a New York se non hai un lavoro fisso è difficile avere amici. Di giorno lavorano tutti e, finito il lavoro, alla sera, si tappano in casa. I primi tempi che ero qui me ne stavo solo come un cane a guardare la televisione… oppure uscivo da un cinema ed entravo in un altro…»

Il percorso infernale descritto nei tre film che porta al parossismo il disagio di vivere in una città tentacolare come New York è accomunato da uno stile condiviso, semi-documentaristico, sociologico. Il contesto è obbligato, sesso e violenza condizionano gli eventi che si “attuano” tra le medesime strade e le medesime facce, viste dall’interno di veicoli (e corpi) o attraverso lunghi carrelli e con l’utilizzo di soggettiva e macchina a mano. I locali lerci ed asfissianti sono quelli dove si spoglia Rocco o dove la ricca ninfomane Jane si masturba durante la visione di spettacoli di sesso dal vivo. Questo humus di sudiciume e instabilità dove il sesso non è mai gioioso ma nervoso, subìto, e la violenza è, per forza di cose, in crescendo, dovuta, è il tessuto connettivo di un mondo crepuscolare in cui i protagonisti sono soffocati (letteralmente), vittime di eventi e dove gli aspetti più estremi tendono a diventare normalità (rapporti pornografici, assassinio) non lasciando spazio ad alcun rapporto veramente umano e duraturo (Lilly ed il suo produttore o Lilly e Rocco nel film di Scattini, Lorna e Rico o Faye e Sammy nel film di D’Amato, Fay e Peter o Kitty e il tenente Williams in quello di Fulci). La consistenza di questo cinema è tangibile, maleodorante, sa di liquidi organici rappresi e alterazioni cerebrali: l’innocenza di Rocco Spinone è inquinata dalla voglia di riscatto in un ambiente ostile fino a rendere l’assassinio non solo necessario ma l’unica opzione per non impazzire. Irrimediabilmente compromesso, vediamo questo tipo umano continuare nell’intento di essere qualcuno, di uscire dall’anonimato che distrugge attraverso un film di passaggio, Il pornoshop, un frammento di Storia più grande, una dilatazione di un tempo perduto (e la dilatazione è caratteristica prettamente massaccesiana) che non può avere sbocchi se non nella follia omicida che diventa seriale e programmatica in Lo squartatore di New York. È indicativo che tutte le trame siano assai marginali, i personaggi anonimi e molteplici, diluiti nella loro essenza fino a scomparire nel sangue, nel cemento, nell’asfalto e tra le luci di New York. Sono comprimari sovrapponibili (Rocco, Rico e Peter, Lorna e Jane, la coppia Rico/Bob e quella Peter Bunch/Mikos Scellenda) di un’unica epopea macabro-pornografica sulla società, sull’uomo e, indirettamente, sul cinema stesso. Quel cinema di genere incapace come i comprimari di New York di mantenere rapporti duraturi con lo spettatore e che per questo ne somatizza i lati più oscuri, degradati ed immorali vomitandoli in immagini altrettanto potenti e prive di speranza.