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Profondo rosso

1975
Titolo Originale:
Profondo rosso
REGIA:
Dario Argento
CAST:
David Hemmings (Marc Daly)
Daria Nicolodi (Gianna Brezzi)
Gabriele Lavia (Carlo)

Il nostro giudizio

Profondo rosso è un film del 1975, diretto da Dario Argento.

Profondo rosso. Deep Red. Un titolo che deriva dai Deep Purple che avrebbero dovuto in un primo momento comporre la colonna sonora del film – poi sostituiti, con un grande colpo di fortuna per Dario Argento e per il film, dai Goblin. Ci fu una grande circolazione di titoli, intorno alla nascita di questo capolavoro. Dal soggettino che ispirò il tutto, scritto da Fabio Piccioni e già servito per sceneggiare un fumetto di Oltretomba, Il grido del Capricorno, che Piccioni cedette a Salvatore Argento per 500mila lire dell’epoca, a Chipisiomega, come appare firmato nello sgrammaticatissimo soggetto depositato a nome di Dario Argento e Antonello Trombadori, fino a La tigre dai denti a sciabola, working title quando ancora il regista pensava di continuare “la trilogia zoologica” dei suoi primi gialli. E invece saltò fuori Profondo rosso, che con L’uccello dalle piume di cristallo e seguenti aveva davvero poco a che fare. Perché l’ispirazione era cambiata, si era evoluta verso posizioni di sempre più marcata irrazionalità, che erano in fondo l’approdo al quale Argento tendeva fin dall’inizio. Chi lo aveva salutato come l’erede di Alfred Hitchcock, di lui non aveva capito nulla. Nello spirito e nella testa di Argento si dibatteva un dio selvaggio che cercava solo l’occasione giusta per scatenarsi, sciolto dagli impasti e dalle catene della logica.

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E quel dio si liberò con Profondo rosso. Un film che venne fatto, plasmato, adattato, perfezionato cammin facendo, un po’ ad happening. Di alcune idee che erano in sceneggiatura è deprecabile siano state sacrificate: soprattutto l’illustrazione di una metropoli invasa dalla sporcizia e dai topi che – forse memore del Nosferatu di Murnau – accompagnava lo spargersi dell’onda omicida a Roma. Per altre trovate, è merito solo e soltanto della caparbietà di Argento non avere ceduto a chi gli obiettava che non potevano funzionare: in primis la sequenza dell’automa semovente che sbuca da una cortina di tende, muovendosi come un soldatino di latta e ridendo come il Diavolo, e introduce la morte nella casa di Glauco Mauri. L’intrusione di quel piccolo arnese psicopompo non viene spiegata, non è spiegabile e non va spiegata. È un dato di fatto argentiano, prendere e accettare: è la sua poiesis libera, pazza e geniale. Uno dei grandi momenti in cui la lama del suo aratro esce dal solco e parte a tracciare un nuovo disegno, in una terra vergine.

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Con Profondo rosso, il mondo di Dario Argento è ormai slittato dentro quel mondo oscuro che sarà la cornice dei suoi migliori film. Un luogo dove tutto può cospirare affinché il delitto si compia: gli elementi naturali, così come le architetture, gli spazi, le pagine di un libro – qui il primo pseudobiblion della storia argentiana: “Fantasmi di oggi e leggende dell’età moderna” – l’aria stessa sono saturi di disegni indecifrabili e funesti. Un panteismo satanico domina già tutto Profondo rosso, impregna ogni situazione fin dalla scena in cui David Hemmings e Gabriele Lavia assistono dalla piazza alla morte della medium, macellata contro un vetro dal suo killer, senza forma e senza nome in quel momento, esattamente parificabile al Nulla assassino che, sempre nella cornice di una finestra, farà a pezzi Eva Axen di lì a poco nella misterica Friburgo. Nessuno, né prima né dopo Argento, è mai riuscito a teatralizzare gli omicidi in questo modo, evocando perfettamente la sensazione che siano le cose, più che gli uomini, a uccidere. Nessuno ha mai onorato l’assassinio come una delle belle arti allo stesso modo in cui c’è riuscito lui. Ma Profondo rosso è un labirinto partendo dal cui centro si possono trovare mille percorsi eccitanti per arrivare all’uscita.

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Seguendo la pista dello Snorkel, la microcamera usata per catturare ed esaltare i dettagli degli oggetti, si arriverebbe, per esempio, all’iperrealismo come chiave espressiva, nuova e tipica, di Argento. Il pericolo, la minaccia, la paura si nascondono nell’infinitamente piccolo e la questione è soltanto sapere come cercarli, scovarli e dilatarli. Argento conosce il segreto ed espone le risultanti – con la precisione e l’accuratezza teorico-pratica di un manifesto del proprio stile – in quella lunga, lenta e agghiacciante ripresa che va snodandosi, ingigantendoli, tra oggettini, biglie, bambolette, trecce di cotone per giungere alla meta sull’impugnatura di un serramanico pronto all’uso. Ma anche la decostruzione e la frammentazione del corpo in parti, la sua oggettificazione in qualche modo, è generatrice di inquietudine profonda: l’occhio della Mater – Clara Calamai è la vera antenata delle tre grandi anziane che vedremo nei film fantastici successivi – ripassato con la matita bistrata in primissimo piano; o le labbra della medium che rigettano l’acqua appena bevuta. Profondo rosso è Profondo rosso e Argento è Argento anche per questo: l’ideazione e la messa in opera (una Grande Opera) di un universo che coopera in tutti i suoi elementi a compiere il miracolo di una sola cosa che ha nome omicidio.