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Gran bollito

1977
Titolo Originale:
Gran bollito
REGIA:
Mauro Bolognini
CAST:
Shelley Winters (Lea)
Mario Scaccia (Rosario
marito di Lea)

Il nostro giudizio

Gran bollito è un film del 1977, diretto da Mauro Bolognini

Si chiamava Leonarda Cianciulli, e con un nome simile era destino che la sua vita non potesse essere quella di una persona qualunque. La Cianciulli passò difatti alla storia come “la saponificatrice di Correggio”, avendo ucciso, sezionato, bollito e ridotto a saponette profumate i corpi di tre donne sue amiche e avendone usato il sangue per impastare dolcetti all’anice – a dire di coloro ai quali li ammannì, assolutamente deliziosi. Questo fu il personaggio: una avellinese, venuta alla luce come frutto di uno stupro e forse anche per questo vittima dell’odio della madre, che la maledì dal letto di morte , augurandole dolori e sterilità. Nondimeno, la Cianciulli riuscì, in capo a una dozzina di aborti, a mettere al mondo quattro figli, ai quali sarebbe rimasta legatissima, in particolare al primogenito Giuseppe, per scongiurare la cui partenza in guerra (siamo nel 1939), Leonarda – dedita alla pratica dell’occultismo e della magia – sacrificò le tre vittime innocenti, secondo un olocausto che le avrebbe prescritto in sogno la Vergine stessa.

Da questa ricca materia si sviluppa Gran bollito di Mauro Bolognini, ancorché prefato da un cartello che dovrebbe allentare il nesso con le gesta della Saponificatrice reale. Ma Shelley Winters è proprio la Cianciulli – in una fase arcaica del progetto si era pensato ad Anna Magnani –, restituita esattamente con i tratti di quella personalità brillante e persino istrionica che testimoniano i documenti d’epoca, le cronache giudiziarie e il lungo diario (“Confessioni di un’anima amareggiata”) vergato in carcere dall’assassina. Il film è sontuoso, solido, accattivante, molto teatrale ma in senso magnificativo: costumi e scenografie di Danilo Donati, musiche di Enzo Jannacci (con un grande main title theme cantato da Mina); impensabile in qualunque altro cinema che non fosse quello italiano degli anni Settanta, la sceneggiatura di Luciano Vincenzoni e Nicola Badalucco, tradotta in una regia di Bolognini scura e densa come il brodo dei liquori che la Cianciulli cavava dai cadaveri delle sue vittime, certifica che la migliore incarnazione della commedia avveniva, in quell’aurea età, nel corpo dei mostri.

La scelta degli autori – grottesca nel grottesco – fu quella di dare a tre uomini i ruoli delle tre zitelle saponificate. A Renato Pozzetto tocca travestirsi coi lustrini e le paillettes di una cantante di varietà, finta tedesca ma in realtà lombardissima, che mentre suona il piano e rimembra, amaramente nostalgica, di non essersi sposata a un bell’industriale da giovane (“L’è mei leccà un os che un bastun”) è l’ultima a subire il trattamento cianciulliano, decapitata e cotta nella soda caustica, dopo Alberto Lionello e Max Von Sydow.  Tra i quali ultimi, specialmente Lionello, mesmerizzante nella parte di una mangiauomini cinquantenne “dalla vagina in fiamme”, Pozzetto rischia di apparire il classico vaso di coccio tra quelli di ferro, tanto più che gli tocca pure parlare con accento teutonico e la cosa un po’ sente lo sforzo e stufa. In compenso, alla fine lo fanno ritornare Pozzetto, nella scena citata al piano, prima di venire accoppato.