La vita è un “taaaaaac!”

La filosofia del Ragazzo di campagna
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Vita dura, monotona, quella del giovane Artemio (Renato Pozzetto), il ragazzo di campagna del titolo che vive con la mamma che ogni volta che muore un gatto gli prepara per pranzo coniglio alla cacciatora. Unica eccezione alla dura vita nei campi lo spettacolo garantito dal passaggio del treno al quale i maschi di Borgo Tre Case, frazione di Borgo Dieci Case, assistono, con Armando “Ossario” Celso in prima fila e Jimmy il fenomeno in seconda, seduti e meravigliati come se fossero (l’omaggio è evidente, come quello del titolo ad una frase di Esopo) alla prima di L’arrivo del treno dei fratelli Lumière. In quanto al futuro, beh per Artemio la prospettiva è quella di rimanere eternamente lì e sposarsi con una brava ragazza innamorata di lui; ma quella Maria Rosa dal volto ad alveare di acne non lo convince affatto. Così, nascosti i soldi in un luogo sicuro, parte alla volta di Milano in… trattore, subito sequestrato da un vigile, e fa i conti con ritmi e abitudini diversi dai suoi. Non riesce ad attraversare la strada, la gente che esce dalla metropolitana lo rimbalza brutalmente, e gli fanno sparire la valigia. Così, smarrito, suo malgrado, chiede ospitalità al cugino Severino Cicerchia (un Massimo Boldi con talento da vendere) che è passato dalla campagna alla città senza perdere un vizio (sintetizzato al meglio dal soprannome che lo accompagna: lo scorreggione) e ne ha acquistato un altro: ruba. Coinvolto, senza saperlo (lui è alla guida della Vespa, i colpi li fa l’altro), Artemio, appena capisce il tipo di occupazione del parente, si ribella ma è proprio grazie a uno scippo che ha l’opportunità di incontrare Angela (Donna Osterbuhr), ragazza bella e disinibita, per la quale perde la testa. I due sono agli antipodi ma una notte d’amore sembra aprire orizzonti inimmaginabili.

Orizzonti di gloria che non accompagnano invece il campagnolo nella ricerca del lavoro. Perché anche se al telefono alla madre continua a ripetere che ha interessanti prospettive in realtà non riesce a trovare (fantastico il suo colloquio per un’agenzia d’assicurazioni), meglio, a conservare un posto. A tesoretto azzerato, si troverà impietosamente in mano un foglio di via. Una volta tornato al paese, capirà però che quella è la sua dimensione. Neppure una sortita di Angela riuscirà a fargli cambiare idea, anche perché nel frattempo Maria Rosa ha perso in foruncoli e guadagnato in prosperità. Diretta da Castellano e Pipolo e servita dalla frase di lancio «Il contadino Pozzetto e il cittadino Boldi nel caos della metropoli», una commedia baciata dalla buonasorte, come confermano anche i diversi – e seguitissimi – passaggi televisivi. Perfettamente in linea con la filosofia politicamente scorretta della coppia l’esaltazione, non esattamente progressista, del mito della cultura agreste e la beatificazione, neanche troppo velatamente maschilista, della femmina di casa o di cascina rispetto a quella non in odor di femminismo ma di semplice emancipazione.

Elementi che però si perdono davanti all’anima ludica di un film che riprende lo spirito delle vecchie comiche (in primis il mazzo di fiori ogni volta ghigliottinato) e traccia un ritratto della Milano da bere che merita di essere visto e rivisto. Specie per l’ironia con cui affronta le mode dell’eterno passo di corsa, del pranzo veloce, del residence con il miniappartamento che ha tutto e delle vacanze obbligate in una località straniera. E tra un personaggio e l’altro, da Enzo Cannavale, cieco guardone, a Jimmy il fenomeno, e tra una battuta e l’altra (tante davvero) butta lì che dal passaggio dalla società contadina a quella industriale l’identità è andata a farsi fottere. Unitamente alla filosofia spicciola. Significativo come Artemio venga cacciato dal set di uno spot perché colpevole di volere, in barba al copione, accettare di scambiare il suo fustino di un detersivo di marca con i due qualsiasi che gli vengono proposti. «È un’offerta vantaggiosa; mi scusi, lei non cambierebbe mille lire delle sue con duemila delle mie?», spiega all’indispettito regista che gli ricorda che non è pagato per ragionare. Così un grande Renato Pozzetto, qui perfetto ragazzo di ragazzo di campagna. Lui che in realtà è ragazzo di lago… Maggiore, sponda rigorosamente magra. Di quella Laveno portata al cinema con legittima fierezza in Sono fotogenico di Dino Risi.

«Dicevano che i milanesi si davano un sacco d’arie. Appena ho potuto, le arie … le ho fatte anch’io». Ecco la genesi di Severino lo scorreggione secondo Massimo Boldi. Una semplice battuta? Forse, ma certo Cipollino nel personaggio ci ha messo qualcosa di suo. «Non l’essere petomane o ladro ovviamente; però – spiega l’attore luinese – anch’io, come il buon Cicerchia, ero un ragazzo di provincia che arrivava in città, nella grande Milano, e ne veniva travolto. I primi tempi furono duri, e l’arte di arrangiarsi fu la prima cosa che imparai, abituato a ritmi e cadenze decisamente diversi». In puro spirito comico di Boldi del resto, tanto la descrizione dell’attività («asportazione e vendita; io prelevo e il cliente compra») quanto la reazione, con tanto di smorfia tendente al pianto, quando il cugino capisce qual è il suo mestiere e lo critica severamente. Giustificandosi goffamente: «Sì, rubo, rubo. Ma a chi rubo? A chi c’ha qualcosa; a chi non c’ha niente non ci rubo niente» e poi, mentre si allontana: «Come soffro quando mi sgridano!». Manca giusto un «Bestia, che dolore!». «Ognuno cercava di portare i suoi numeri da Derby, il tempio del cabaret meneghino, anche al cinema – spiega Boldi. Lo facevo io, lo faceva Renato con il quale ho sempre lavorato benissimo. Certo, quel 1984 per me fu un anno di grazia. A Natale ero nelle sale con due film, Il ragazzo di campagna e I due carabinieri. Ragazzi, che tempi!». Quando ancora  la partita si giocava a ridosso del 25 dicembre e non con un anticipo ultradisneyano. «Ma essendo io un cartoon – scherza ma non troppo – devo per forza scendere in campo con la Disney».

«Ribaltabile, taaac; sedia rotante, taac; posto per commensali, taac». E così via nell’apparecchiare la tavola per quel pranzo moderno che porterà Artemio diritto all’ospedale. Anche se Renato Pozzetto dicesse il contrario, non si fa certo fatica a comprendere come questo monologo sia farina del suo sacco al pari di altre battute del film (risposta ad Angela che chiede se è contento perché gli dà una chance: «Eh beh sì, eh! Solo che non saprei dove metterla; ho la casa piccola» su tutte). «Vero – spiega l’attore, divertendosi al ricordo – la mia parte nella sceneggiatura l’ho fatta eccome. Alcune cose sono totalmente mie, altre frutto del confronto con gli autori, Castellano & Pipolo. Uno buttava lì l’idea, che, parlandone in gruppo, prendeva forma o faceva nascere altre idee. Così funzionava alla grande».“Il ragazzo di campagna” dice: «è la mia pellicola più vista in televisione. Fino a qualche anno fa era addirittura nel top ten dei film italiani sul piccolo schermo. Anche recentemente, l’ha programmata Rete 4 e ha fatto un ottimo ascolto, nonostante fosse l’ennesima replica. Persino su Sky viene trasmessa con regolarità. «Comunque non lo ritengo il mio film migliore. Ne preferisco altri, in particolare La patata bollente che anche rivisto oggi ha una sua modernità e freschezza, e Sono fotogenico, che mi portò addirittura al Festival di Cannes, ad alcuni meno capiti ai quali poi alla fine – come capita con i figli un po’ sfortunati – si vuole più bene. Dico sempre, e non lo faccio a scopo promozionale, che il mio film più bello è l’ultimo, ma certo devo ammettere che le proporzioni del successo di Un ragazzo di campagna mi hanno sorpreso. In fin dei conti è un film semplice semplice, perfettamente in linea con la filosofia di Castellano e Pipolo. Penso che il titolo e la nostalgia per un mondo che stava scomparendo, quello agricolo-contadino, abbiano giocato un ruolo importante».
Elementi vincenti di una commedia che ha costretto l’attore anche ad un sacrificio… sportivo. «Il lavoro è lavoro ma a uno come me, milanista di ferro, il dover sventolare la bandiera della Juventus in una partita che oltretutto vince l’Inter, ecco, sì, un po’ è pesato…».